UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA

Facoltà di Scienze della Comunicazione

 

TESI DI LAUREA

 

 

“NIETZSCHE VERSUS KANT“

(in ambito morale)

 

 

Relatore:

Prof. Michele Prospero

 

Correlatore:

Prof. Marco Cilento

 

Candidato:

Francesco di Rosa (matricola: 486525)

 

 

ANNO ACCADEMICO 2003/2004

(Sessione invernale)


 

INDICE

Premessa:

1. Nietzsche Vs Kant : lo sfondo di un dibattito

2. “Ogni filosofia è un’autobiografia”: Eventi,vicissitudini,incontri

 

Capitolo I°: Capisaldi della morale kantiana

 

1.Per una morale universale e necessaria

2. Il primato del kathèkon sull’edonè

3..Imperativo ipotetico e imperativo categorico

4. La felicità non può fondare la moralità

5. Il ruolo della religione nella morale

6. Il tributo a Rousseau

 

Capitolo II°: Nietzsche Vs Kant

 

1. Il tributo a Schopenhauer

2. Agli antipodi

3. Contro Socrate (=Kant)

4. Dioniso e Apollo

5. Il superuomo nietzscheano e l’essere razionale kantiano

6. Lavolontà di potenza” in relazione al “dovere”

7. Nietzsche e l’illuminismo

 

Capitolo III°: LA SINTESI

 

    1. “Buono” more nietzscheano versus “buono” more kantiano

    2. Kant, Nietzsche e Dio

    3. Conclusioni

 

Schema della dialettica Nietzsche – Kant

Bibliografia


 

Premessa

1. Nietzsche Vs Kant: lo sfondo di un dibattito

 

La presente analisi, circa l’opposta concezione della morale nelle filosofie di Nietzsche e Kant è incentrata sul raffronto critico dei capisaldi su cui poggiano le rispettive teorie in materia. L’idea del “duello” - a quei tempi le dispute si risolvevano così - è figlia della polemica a distanza inevitabilmente[1] innescata da Nietzsche, e delle sue frequenti allusioni “sarcastico-maliziose” al professore di Konigsberg, che sottolineano lo iato esistente tra i rispettivi convincimenti filosofici. Una frattura, tuttavia, che la società moderna, segnata eccome dalle loro idee, ha provveduto a risanare.[2] Sullo sfondo di questa disputa - haud dubie - sta l’Illuminismo. Nel mare magnum dell’Età dei Lumi, infatti, possiamo riconoscere due forze antitetiche, una causa fiendi dell’altra. La prima forza - pulsione straordinaria verso la libertà - rivoluziona i rapporti “individuo-società” e “individuo-istituzioni” democratizzandone la cultura. La seconda è invece legata alla critica e all’opposizione nei confronti di quelle istanze e di quei principi che l’Età dei lumi ha eletto a supremi valori dell’uomo. È l’Illuminismo stesso a porre le premesse per la sua negazione: la tesi partorisce l’antitesi, Kant rende possibile Nietzsche. Sarebbe errato, tuttavia, prescindere dai differenti contesti storici, in cui sono germogliati il pensiero di Kant e quello di Nietzsche, limitando questo confronto ad una semplice e semplicistica diatriba tra distinte weltanshauungen. La fuga dalla ragione, l’avversione ed il sospetto verso gli ideali di uguaglianza e democrazia, che segneranno il pensiero nietzscheano, non sono infatti scevri da ragioni d’ordine storico-culturale. È, perciò, doveroso fare un breve excursus, volto a contestualizzare le due filosofie al fine di comprenderne al meglio le peculiarità. Premesso che non esiste un solo Kant[3] - e neppure un solo Nietzsche - egli è, con particolare riguardo al tema che ci apprestiamo a trattare, uomo del Settecento, nonché convinto assertore delle più classiche istanze illuministe. La filosofia kantiana incarna in modo esemplare quello che si è definito culto della Dea ragione; essa prende le mosse dal razionalismo come metodo speculativo ideale, e approda al criticismo. Dal punto di vista politico, Kant vive l’epoca dell’assolutismo - illuminato o ancien régime, a seconda dei casi - quando la ragione, in ambito borghese, viene intesa un sospirato refugium per menti libere. Non a caso, è da ascrivere a Kant quella celebre frase che fotografa l’Illuminismo come il movimento culturale, grazie al quale l’uomo esce da uno “stato di minorità”. L’Età dei Lumi rappresenta per Kant un’importante cesura, in grado di far uscire dai “salotti buoni”nuove idee di riscatto ed emancipazione e di abbattere il vecchio ordine. La diffusione del “credo illuminista” sarà propedeutica agli eventi che di lì a poco segneranno - politicamente e culturalmente - l’Europa. Per contro, la filosofia nietzscheana prende corpo in un ambiente politico-culturale radicalmente mutato, che dell’Illuminismo stesso e della Rivoluzione francese -passando per Napoleone - è il risultato. Nonostante la Restaurazione (1815), gli ideali rivoluzionari - diffusi in ogni angolo d’Europa dalle truppe francesi - hanno lasciato il segno. Anche sul piano economico-sociale, l’Ottocento è - a tutti i livelli - un periodo denso di mutamenti. La seconda rivoluzione industriale genera conflitti sociali sempre più intensi, le campagne si spopolano a favore delle città e le tensioni si moltiplicano, proprio al cospetto di quelle vecchie élites, che le potenze assolutiste hanno restituito al potere (moti del 1820-’21; moti del 1848). La condanna dei movimenti rivoluzionari è durissima sia dal punto di vista politico che culturale. Anziché essere accolte come nuove, legittime protagoniste della società in evoluzione, le classi subalterne appaiono all’intellighenzia come delle vere e proprie minacce all’ordine ri-costituito. Il clima intellettuale generale è atterrito alla sola idea del “fantasma rivoluzionario”. È l’ère de la folle, in cui la massa è ritenuta un’informe componente bestiale[4], un’entità minacciosa da sorvegliare, come testimoniano gli sviluppi toponomastici della Parigi ottocentesca, coi suoi boulevards. A margine di questa diffidenza, si sviluppano gradatamente alcune correnti che affiancano le istanze dei reietti e degli sfruttati dal capitalismo selvaggio. Non si tratta più di utopie alla Proudhon: il riscatto passa ora per l’azione, la prassi.[5] Inoltre - sul piano strettamente politico - Kant e Nietzsche giacciono su uno sfondo completamente diverso. All’epoca di Kant la situazione tedesca è assimilabile a quella italiana: una realtà frammentata, divisa in stati e staterelli. L’età di Nietzsche è invece caratterizzata dall’avvento degli stati-nazione, dalla “politica di potenza” e dalla retorica nazionalista stile-Fichte. È l’età del Reich, del militarismo prussiano e non si può disconoscere - nel bene e nel male - l’influenza che questi fattori esercitano sulla elaborazione del pensiero del filosofo di Rocken. Nietzsche versus Kant dunque, è metafora di due mondi differenti, che in “ambito morale” trovano un terreno di scontro paradigmatico. Probabilmente, non è del tutto errato ritenere che, senza Kant, Nietzsche non sarebbe stato Nietzsche, anche se forse la dialettica dei contesti, più che le idee, rendono un filosofo diverso dall’altro: le idee vanno sempre a spasso con i fatti. Kant è un entusiasta dell’Illuminismo. Egli se ne nutre, lo caratterizza e lo definisce:

“Illuminismo - afferma - è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità imputabile a lui stesso. Minorità è l’impossibilità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro.”[6]

Nietzsche ne è un frutto posteriore, la sua negazione ultima,[7] a seguito dell’idealismo e della deludente stagione positivista. Egli ha visto il mito dell’Età dei Lumi schiantarsi contro i principi democratici, esaltarsi con Napoleone, annegare, infine, negli ideali socialisti. In Kant, l’Illuminismo è in pieno slancio e viene concepito come fonte suprema di liberazione dell’uomo. Per contro - parafrasando lo schema dialettico hegeliano - possiamo considerare Nietzsche quell’antitesi, che la tesi stessa ha generato e che vede nei prodotti dell’Illuminismo - democrazia, uguaglianza, razionalità - l’identico ressentiment che ha consentito all’istinto teologico- sacerdotale di sublimarsi nel cristianesimo, finendo col negare i valori aristocratici della vita. Per Nietzsche, aristocratico[8] è qualcosa di “alto” dato in pasto alle plebi, un valore irrimediabilmente perduto. Detto questo, una precisazione è d’uopo. In ordine alla precedente considerazione, che nega l’esistenza di una sola filosofia nietzscheana - come pure di una sola filosofia kantiana - è bene ricordare che il dibattito circa la presunta parentela tra Nietzsche e l’Illuminismo è molto vivo.[9] Sia pur considerando Kant e Nietzsche figli del proprio tempo, questo lavoro tende a contemporaneizzare la filosofia morale dei due filosofi, facendo delle loro idee le protagoniste assolute, astenendosi pertanto da ulteriori precisazioni d’ordine storico. Innanzitutto, occorre dire che, in ambito morale, colonna portante è, per entrambi, la libertà, la cui visione e significato ascrivibili all’uno, sono diametralmente opposti a quelli dell’altro.[10] Pregiudizialmente - e a scapito della verità - l’analisi e il raffronto in ambito morale tra Nietzsche e Kant è stato per lungo tempo come porre il “bene” ed il “male” l’uno dinanzi all’altro.[11] Tuttavia, le categorie di bene e di male sono incompatibili con qualsiasi tipo d’analisi, che deve avvenire rigorosamente ”sine ira et studio”. Ancora una volta, ci chiediamo: senza la lezione kantiana, avremmo mai avuto un Nietzsche tanto interessato - quasi ossessionato - dal fatto morale, i suoi strali - o riferimenti metaforici di condanna [12]- contro il dovere in sè e l’ universalismo? Leggendo attentamente l’opera nietzscheana, è possibile percepire quanto ingombrante sia stata la figura di Kant per il pensatore di Rocken. Forse è riduttivo guardare a Kant come ratio essendi di Nietzsche - né questo è il vero obiettivo dell’analisi - ma è significativo il fatto che tutto ciò che il primo è impegnato a costruire, quest’ultimo tenta di abbatterlo sdegnosamente, abbandonandosi finanche all’ invettiva (di Kant dice: “un operaio della filosofia”; “il grande cinese di Konigsberg”)[13], tanto l’elegante Magister è morto ormai da più di cinquant’anni! Anche da simili dettagli può evincersi che l’accostamento tra i due non è affatto una forzatura schierando ex post “l’un contro l’altro armati”, bensì un confronto più che motivato e filosoficamente plausibile.

 

2. “ Ogni filosofia è un’autobiografia “[14] : eventi, vicissitudini, incontri…

 

Il titolo di questo paragrafo è esemplificativo dell’intenzione di analizzare le esperienze - culturali e non - che hanno maggiormente influenzato il pensiero di Kant e Nietzsche, coincidenze o discrasie a riguardo. L’asserzione nietzscheana -“ogni filosofia è un’autobiografia”- intende evidenziare fino a che punto la passione e l’indole si celino dietro ogni più o meno articolata weltanshauung, persino la più ragionevole - o razionale- come quella kantiana[15]. Sia Kant che Nietzsche sono autori di filosofie il cui primo effetto è quello di “spaccare”, anziché “edificare”, nonostante il sistema in cui il primo - a differenza del pensatore di Rocken - [16] è riuscito ad organizzare il proprio pensiero. Tali filosofie germogliano su un terreno legato ad una serie di situazioni - personali e non - frequentazioni ed eventi, che hanno avuto certamente un peso nella genesi dei rispettivi pensieri. Entrambi si battono - contro dogmatismo e approssimazione - per la verità, prendendo le mosse da presupposti completamente differenti. Non a caso, Kant, tra i classici, è assai “devoto” a Socrate e Platone, mentre Nietzsche -per formazione - è fortemente legato ai pre-socratici.[17]Per coglierne sommariamente la differenza di temperamento, è sufficiente porre a confronto gli stili -”lo stile è l’uomo”- [18] con cui i due filosofi sono soliti argomentare. Quello di Kant[19] è rigidamente tecnico, scarno ma ricco di esempi, per espletare al meglio le finalità didascaliche. In una parola, in Kant, tutto è articolazione logica, mente. Al contrario, l’argomentare nietzscheano è veemente, sferzante, e assume a tratti il carattere dello sfogo[20]. Ogni pagina è sofferta, vissuta con passione. In una parola, in Nietzsche, tutto è stomaco. Tuttavia, considerando alcuni aspetti d’ordine strettamente biografico, Nietzsche e Kant non sembrano poi così distanti. Entrambi ricevono una rigorosa educazione religiosa e conducono una vita completamente priva di azione[21]. In Kant riscontriamo una sostanziale coerenza tra il proprio pensiero e la vita vissuta.[22] Stando ai cardini del kantismo, infatti -per la fondazione di una morale che risponda a leggi puramente razionali - tutto ruota attorno alla ragione, con il primato sostanziale di questa sulle inclinazioni. In questo senso, la vita di Kant è un fedele ritratto del ”pensiero kantiano”. Si rimane invece stupiti, se si paragona “Nietzsche-uomo” a “Nietzsche-filosofo” -campione dell’anti-socratismo, dell’esaltazione di Dioniso e dell’abbattimento d’ogni pretesa superiorità della ragione - poiché il primo sconfessa decisamente il secondo. Il professor Kant - totalmente assorbito dalla vita accademica - è uno dei primi filosofi a guadagnarsi da vivere insegnando[23]. Inizialmente, egli gode di ottima reputazione presso gli ambienti “alto borghesi”, che sovente frequenta e in cui si trova perfettamente a proprio agio[24]. Tuttavia, non troviamo Kant impegnato in viaggi, né ad intrattenere relazioni più che formali con i “grandi” del suo tempo. Il suo mondo è e sarà sempre Konigsberg o giù di lì, fino agli ultimi giorni della sua vita. Una vita piana - soltanto a tratti lambita dai capricci d’una salute cagionevole - che ha condotto alcuni critici, in primis Heine, a sostenere che egli non sia stato un genio[25]. Occorre però considerare, che la biografia di Kant è costituita essenzialmente dalle sue pubblicazioni e, per valutazioni di questo genere, non si può prescindere dall’analisi della sua opera, che geniale lo è senz’altro. La vita di Nietzsche è in netto contrasto con lo spirito trasgressivo, demolitore e nichilistico[26] della sua filosofia. Egli, anche ai tempi del sodalizio con Wagner - anni che non esiterà a definire i più felici della sua vita - vive in modo allergico la mondanità, come testimonia il disgusto da cui è assalito durante il Festival di Bayreuth,[27] piuttosto che la realtà politica, come mostra lo stupore con cui accoglie lo scoppio della guerra franco-prussiana (1870), nell’ aria da tempo. Il filosofo dello “spirito libero”, capace di ergersi - al di là di ogni menzogna e pregiudizio - al di sopra della morale e farsi portavoce di nuovi valori, non ha mai infranto nemmeno un regolamento municipale[28]. L’auspicato superuomo, sontuosamente annunciato dal Nietzsche-filosofo, è quanto di più distante possa esserci dal Nietzsche-uomo. Tuttavia, appurare i motivi delle lampanti discrasie tra l’uomo ed il filosofo non costituisce l’oggetto della nostra analisi, essendo semmai lavoro da biografi o psicanalisti. Con riferimento al giudizio di Heine su Kant, in Nietzsche il germe della genialità (non ancora laureato, nel ’69, ottiene la cattedra di filologia classica all’Università di Basilea) è presente eccome. Basti pensare al carattere “visionario” di molti dei suoi annunci,[29] al suo ossessivo rapporto con la morte,[30] alla dirompente tematica del nichilismo[31] e al filo sottile che lega l’insorgere della follia con le conseguenze più estreme della sua filosofia. Nietzsche è a pieno titolo un maudit. Come maudit vive, filosofa e muore. Il travagliato rapporto con la salute[32] - che spesso lo costringe all’invalidità - contribuisce all’elaborazione di quei concetti dirompenti, che caratterizzano il pensiero nietzscheano.[33] Al pari di Kant, anche Nietzsche viaggia poco e, quando lo fa, è alla ricerca di ambienti ideali, che si addicano meglio alla propria salute e ne favoriscano la guarigione. Nonostante le sofferenze di ogni sorta che proveranno Nietzsche per tutta la vita, a questa stessa vita Nietzsche dirà sempre sì (amor fati), al punto di arrivare a ringraziare l’infermità per avergli donato la propria filosofia[34]. Le filosofie di Kant e Nietzsche debbono entrambe qualcosa a qualcuno, ma ciò non va interpretato come una “deminutio”. Ciascun filosofo, infatti, opera su un terreno già “lavorato” da altri, prima di erigere il proprio “edificio”. Fatta salva l’enorme influenza che i pre-socratici[35] esercitano su Nietzsche - in ossequio alla smisurata ammirazione, per la quale i filologi del tempo consideravano gli antichi greci come dei contemporanei - non ci si può avvicinare alla sua filosofia, senza considerare l’opera di Schopenhauer e l’incontro con Wagner (lo conobbe a Lipsia, poco più che ventiquattrenne). A Schopenhauer, egli dedica la terza delle quattro considerazioni inattuali (Schopenhauer come educatore), nella quale intende non tanto mettere a fuoco i capisaldi della filosofia schopenhaueriana, quanto esaltare le qualità dell’“uomo” Schopenhauer[36]. È alla wille irrazionale del filosofo di Danzica - uno dei pochissimi pensatori che studia di “prima mano”-[37] che Nietzsche si ispira per giungere al concetto di volontà di potenza che rompe recisamente con la tradizione. Fin da quando inizia la propria attività di professore, Kant mostra che la sua volontà non è quella di “insegnare filosofia”, ma “insegnare a filosofare”, dando vita a un pensiero critico, finalmente libero da pregiudizi[38]. Dall’Inghilterra, è l’empirista radicale Hume - ammette Kant - colui che lo ha svegliato dal torpore[39] (senza ovviamente che ciò ne segni l’approdo presso istanze rigidamente empiriste). Con un occhio alla Germania, invece, già Lambert, come pure Crusius,[40] era insoddisfatto del razionalismo dogmatico di matrice leibniziana, perché incapace di restituire all’uomo una conoscenza oggettiva e a tal fine auspicò un avvicinamento tra empirismo e razionalismo[41], preludio al criticismo kantiano. Prima della nascita del “secondo Kant”,[42] un evento ne anticipa gli interessi in ambito morale: il terribile terremoto del 1755, che distrusse quasi totalmente Lisbona ed ebbe un’enorme eco in Europa.[43] Questa calamità - in ambito filosofico - ebbe l’effetto di risvegliare il problema della teodicea, ovvero della giustificazione di Dio in rapporto alla sofferenza nel mondo. Ebbene, in tali riflessioni, già s’intravede in Kant quello che, più avanti, riterrà il primato della “ragion pratica” su quella “teoretica”.[44] Il 1770 - anno dell’ottenimento della cattedra di “logica e metafisica” tramite la dissertazione De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis - è per Kant un momento chiave, che sancisce una netta cesura nella sua vita e nell’evolversi del suo pensiero. Nonostante fosse da anni insegnante di successo, nome insigne presso l’ambiente accademico, nonchè presenza graditissima nei salotti più in vista, Kant attese degli anni prima di ottenere la sospirata “investitura”[45]. Ebbene, da questo momento ha inizio la cosiddetta fase-critica, che aspira a superare definitivamente il dogmatismo, la cui influenza si riflette nella corpulenta fase degli scritti scientifici[46]. Tale svolta -professionale e filosofica - si ripercuote anche sulle sue abitudini. Egli, infatti, inizia una “vita ritirata”, lontano dall’elegante ribalta, in cui era stato ben inserito negli anni precedenti. Undici anni dopo, Kant, che a differenza di Nietzsche - inventore delle categorie di apollineo e dionisiaco[47]- non si distingue per la creazione di azzeccati “neologismi filosofici” (preferisce adoperare la terminologia classica, mutuata da Leibniz, Locke e Aristotele)[48]- darà vita alla prima delle tre critiche,[49] salutata da Schopenhauer come “il libro più importante mai scritto in Europa”. Se è all’insegna dell’ “incontro” con Hume - e in generale del “sentimentalismo inglese”- che Kant rivedrà i propri convincimenti, [50] sarà un addio - quello con Wagner - a segnare il momento in cui Nietzsche smetterà i panni del filologo stile-La nascita della Tragedia, per divenire a pieno titolo filosofo[51]. Molto è stato detto - in sede d’interpretazione della filosofia nietzscheana - sulla rottura tra Nietzsche e Wagner. La causa prima è più semplicemente esistenziale e d’opportunità. Il filosofo di Rocken, nauseato dalla volgarità e dalla corruttela che ammantava l’ideale wagneriano,[52] non si trova a suo agio nemmeno nel suo ambiente naturale. La figura di Wagner è soffocante per Nietzsche, che rischia di venire “azzerato” dalla personalità e dall’egocentrismo di quello. Affrancatosi dall’ala protettiva di Wagner, che - in termini di popolarità e frequentazioni - gli assicurava senz’altro dei vantaggi, ma ne frenava la crescita di pensatore, è con Umano, troppo umano, che Nietzsche si scrolla di dosso il wagnerismo - con la sua visione catartica dell’arte, strumento ideale per restituire l’uomo al suo antico splendore, arrestandone la decadenza - e prende le distanze da Schopenhauer[53].

Se la vita di Nietzsche è duramente segnata dall’infermità, l’unico “male” che deve fronteggiare Kant, è la censura[54]. Nonostante i disagi occorsigli per un innocente scritto religioso,[55] Kant non depone le armi. Anzi, nel 1794, pubblica La fine di tutte le cose - una critica mordace della politica religiosa prussiana - parlando di “Cristianesimo che si arma di dispotica autorità come dominio dell’Anticristo, che inizia così il suo governo, per quanto breve”[56].

Parole che suonerebbero bene in bocca a Nietzsche e che Kant pagò, barattando la propria tranquillità con la rinuncia definitiva a trattare di “filosofia della religione”: l’epoca dell’assolutismo illuminato era tramontata.[57] Possiamo, in ultima analisi, affermare che le vite di Kant e Nietzsche, contraddittorie quanto si vuole, geniali o meno, costituiscono il terreno dal quale sbocciano rispettivamente una filosofia “della mente” ed un’altra “dello stomaco”:[58]non possiamo leggere irrazionalismo e nichilismo nietzscheani senza accostarli - almeno per un istante - alle sofferenze fisiche e morali che Nietzsche dovette patire nel corso della sua vita.[59]Su Nietzsche e Kant pendono anche le molte critiche con cui la filosofia successiva e contemporanea hanno accolto la loro opera. Al primo, è stata imputata scarsa originalità mista a dilettantismo.[60] Come detto, sono pochi gli autori che Nietzsche ha studiato di “prima mano” e, paragonato al poliedrico Kant, in grado di tenere i corsi più disparati,[61] sono molte le obiezioni che la critica snob è in grado di opporgli. Tuttavia, la genialità di Nietzsche risiede nella sua aspirazione - suffragata da doti incommensurabili - ad essere, al pari di Kant, non uno “storico della filosofia”, bensì un “filosofo che filosofa”. Non occorre, pertanto, che egli conosca a “mena dito” tutta la storia della filosofia, quanto che utilizzi il lavoro, le categorie di chi lo ha preceduto e - attraverso un mirabile sforzo di rielaborazione e sintesi - dia vita a un pensiero originale[62]. A Kant, invece, è stata rimproverata - dallo stesso Nietzsche - la pedanteria tipica del “professore a tempo pieno”, oltre a un formalismo vuoto,[63] che renderebbe la sua filosofia, completamente avulsa dalla realtà. Per giunta, Kant è stato accusato di utilizzare uno stile incomprensibile ed elitario, proprio nel momento in cui si tentava di “popolarizzare” - relativamente all’epoca - la cultura[64]. Al di là di tali critiche, che non intaccano il contributo dei due filosofi alla “causa della filosofia”, si è fatto anche di peggio. Molti cosiddetti filo-nietzscheani hanno strumentalizzato il pensiero del filosofo di Rocken a fini razzisti, interpretando la sua critica dell’ebraismo[65] come autorevole anteprima dell’antisemitismo nazista. In realtà, in alcuni passaggi della sua opera, egli stesso deplora e schernisce gli antisemiti, in un periodo in cui l’antigiudaismo[66] è diffuso in tutta Europa. Come se non bastasse, i detrattori di Nietzsche hanno tentato persino di cancellare dalla storia della filosofia la sua lezione - forse perché demoliva, specie in ambito morale, troppe ataviche, radicate convinzioni-[67] considerandola tout court - è la “tesi Mobius- figlia della follia. Che la follia abbia ad un tratto fatto breccia nella mente e nella vita di Nietzsche è cronaca, che i guai fisici che lo tormentarono sin da giovane ne costituirono il preludio, influenzando profondamente lo sviluppo del suo pensiero, un’ipotesi più o meno accreditata. Tuttavia una cosa è certa: quando - in quella tragica mattina torinese del 1889 - la follia si palesò in tutta la sua veemenza, Nietzsche cessò di essere filosofo. È difficile, dunque, stabilire quale delle due pratiche sia stata la più deleteria (la manipolazione o il totale discredito) per l’interpretazione successiva del “pensiero nietzscheano” ma, senz’altro, entrambe non sono riuscite ad offuscarne la capitale importanza.[68] Quanto a Kant, le obiezioni che la critica gli ha mosso nel tempo - se si eccettuano quelle di “misantropia” e “meschinità” che lo accompagnarono dal 1770 - raramente scadono “nel personale”, restando confinate ad un ambito prettamente filosofico.[69] Comunque, a prescindere dalla loro attendibilità, le accuse rivolte all’uno e all’altro evidenziano quanto sia difficile - addirittura impopolare - esprimere qualcosa di veramente innovativo nella storia del pensiero.


 

 

 

 

 

Capitolo I°: Capisaldi della morale kantiana

 

Sommario:

1. Per una morale universale e necessaria                                                    

2. Il primato del kathèkon sull’edonè                                                           

3. Imperativo ipotetico e imperativo categorico                                         

4. La felicità non può fondare la moralità                                                    

5. Il ruolo della religione nella morale                                                         

 6 .Il tributo a Rousseau                                                                                   

 

 

 

 

 

 

 

 


 

1. Per una morale universale e necessaria

 

È datata 1772 la lettera ad Herz nella quale Kant rende noti i propri progetti, relativamente al campo teoretico e all’ambito pratico[70]. Nell’uno e nell’altro, egli è intenzionato a sgomberare il terreno dal dogmatismo, dal relativismo e dallo scetticismo, fino a quel momento sovrani.[71] Kant è fermamente convinto che una filosofia morale produttiva non possa mescolare elementi puri ed elementi empirici. A suo dire, tutti i tentativi improntati a scoprire i principi effettivi della moralità sono falliti, in quanto poggiavano su prescrizioni esterne, che non presupponevano l’autonomia della volontà. Cosicché, sinora, quando si è agito moralmente, è sempre stato “in conformità”[72] al dovere, non per il dovere “in sé”.[73]Il concetto di autonomia è fondamentale per comprendere la rivoluzione kantiana in ambito morale. Per autonomia -“fondamento della dignità della natura umana”[74]- il nostro intende capacità di “autoregolamentarsi”, di rispondere a leggi che ci si è dati da sé. Con l’autonomia, Kant si colloca oltre Rousseau e Hume. Secondo il filosofo tedesco, infatti, il fondamento dell’eticità non può riscontrarsi né in un benevolo amor proprio, né in un sentimento morale (moral sense).[75] Tale concetto, inoltre, è contrapposto all’eteronomia da “ancien regime”, in virtù della quale leggi esterne (statali, religiose) cogenti imponevano all’uomo una condotta fondata su doveri che non poggiavano su fondamenta puramente razionali.[76] Ora, proprio su queste fondamenta, Kant intende porre una “legge morale”, che esprima delle obbligazioni in modo universale e necessario, tali cioè che valgano per tutti e in tutti i casi:[77] in ogni uomo, infatti, è insita la condizione per poter condurre una vita morale. A tal proposito, Kant sostiene che “il fondamento dell’obbligazione non deve essere cercato nella natura dell’uomo o nelle circostanze in cui egli si trova nel mondo, ma a priori, esclusivamente in concetti della ragion pura”[78].

Cos’è, dunque, che determina la moralità o meno di un’azione? Cosa attribuisce ad una condotta o ad una legge lo status di morale? Non una serie di prescrizioni determinate empiricamente da casi particolari, validi in un contesto piuttosto che in un altro, bensì dalla sovranità che la ragione esercita sulla volontà autonoma. “Ragione” e “volontà”, pertanto, costituiscono i cardini sui quali Kant pone la sua concezione innovativa della morale. Più precisamente, la ragione determina - scevra da inclinazioni, desideri - la volontà. Ancora: ”Ogni prescrizione che si fondi su principi della semplice esperienza, persino una prescrizione sotto un certo aspetto universale(…), può portare il nome di regola pratica, ma mai di legge morale”[79].

Il crisma dell’universalità, dunque, è conferito sempre e soltanto “per rationem”, ovvero tramite la forma (l’imperativo)[80], non il contenuto (caso particolare). Una morale che poggiasse - anche minimamente - sull’esperienza, infatti, sarebbe “per definitionem” circoscritta e particolare, e risponderebbe a prescrizioni pratiche, non già morali[81]. Perciò quando parliamo di moralità, dobbiamo presupporre, in primo luogo, una “volontà libera” che possa, autonomamente, decidere di prestar ascolto ai dettami della propria ragione, senza cedere minimamente alle inclinazioni. E, poiché la ragione accomuna tutti gli uomini, la “legge morale” - proprio in virtù del fatto che è razionale - non potrà che dirsi universale. Alla luce di ciò, l’intento di Kant non è quello di fondare un nuovo “sistema di valori”, bensì compiere un’indagine critica circa i fondamenti della morale. La morale kantiana non ha nulla a che spartire con la morale tradizionale, interamente legata a divieti e prescrizioni. Un errore “classico” è l’utilizzo indifferenziato dei termini etica - d’origine greca - e morale - d’origine latina - che, in realtà, veicolano significati completamente differenti, in quanto espressione diretta di due culture improntate rispettivamente all’individualismo e al forte legame sociale.[82] In generale, l’etica designa un percorso individuale, attraverso norme che conducano ad una “buona vita”; la morale invece, descrive un percorso collettivo segnato da prescrizioni ineludibili, propedeutiche alla conduzione di una “giusta vita”.[83]

La filosofia pratica di Kant salta “a piè pari” tali elucubrazioni, accantonando il dato empirico[84], fondando tutto sull’a priori. Egli sposta la dicotomia individuale/universale sull’asse massima-legge morale. La massima attiene alla sfera individuale e può considerarsi, per l’appunto, il “principio soggettivo dell’agire” -legato spesso all’ignoranza e/o alle inclinazioni di ognuno- per necessità, distinto dal “principio oggettivo dell’agire”. Il soggetto, dunque, agisce in base alle massime che di volta in volta assume.[85]Per contro - e qui l’intervento teso ad “universalizzare il relativo” per rationem- Kant ritiene la legge il “principio oggettivo”[86], che costituisce il fondamento secondo cui ciascuno deve agire. Per ricomporre la naturale frattura tra “massima” e “legge morale” - non essendo l’uomo un essere “totalmente razionale”, avendo bensì una naturale predisposizione a trasgredire[87] - Kant stabilisce che l’imperativo categorico è uno solo:

Agisci soltanto secondo quella massima, per mezzo della quale puoi insieme volere[88] che essa divenga una legge universale”.[89]

L’imperativo categorico, dunque, è sempre definito, il suo contenuto analiticamente dato. Oltre alla legge, contiene la necessità che la massima sia conforme a questa legge, senza limitazioni (volontà illimitata)[90]. Perciò, a differenza dell’imperativo ipotetico, che comanda i mezzi in relazione ai fini, l’imperativo categorico comanda la forma, non il contenuto dell’azione. Ciò lo rende universale, valido per tutti e in tutte le situazioni[91]. Il richiamo alla forma, se da un lato risolve la preoccupazione kantiana più sentita, segnatamente all’universale validità di un comando, qualche problema lo reca in fatto di applicabilità. Ossia: se è vero che la “teoria” scorre senza problemi, la “pratica” desta qualche perplessità. A simili obiezioni, Kant replica in modo articolato:

“In una teoria che è fondata sul concetto del dovere, la preoccupazione per la vuota idealità di questo concetto viene interamente meno. Infatti, non sarebbe più <<dovere>> mirare ad un certo risultato del nostro volere, se esso non fosse possibile nell’esperienza e solo di questa teoria intendiamo parlare. Poiché non di rado si sente sostenere che ciò che essa può avere di esatto non ha valore per la pratica. Questa massima divenuta così comune nei nostri tempi ricchi di parole e vuoti fatti, quando si applica alle materie morali, prepara gravissimi danni, poiché qui si ha a che fare col canone della ragion pratica, in cui il valore della prassi riposa interamente sulla sua conformità alla teoria che le sta a fondamento, e tutto va perduto quando le condizioni empiriche (…) siano elevate a condizioni della legge stessa, sì che una pratica calcolata in rapporto a un probabile successo, secondo un’ esperienza avuta sinora acquista il diritto di dominare la teoria, che ha valore per se stessa.”[92]

Come in campo speculativo, anche in ambito morale, Kant attua la cosiddetta rivoluzione copernicana.[93] Non è infatti il concetto di bene a determinare la “legge morale”, bensì la “legge morale” a determinare il concetto di bene. Va ribadito, pertanto, che la moralità è un modo di essere della volontà - “autonomamente sottomessa” a leggi razionali - e non un adeguamento a qualcosa di esteriore, contingente - in una parola empirico - reputato “buono”.[94]Il concetto di libertà è basilare per comprendere l’autonomia della volontà. In questo caso ci riferiamo a quella libertà denominata negativa (“libertà da”), il cui possesso consente alla volontà di essere ”legge per se stessa”.[95] Nonostante il fondamento della morale debba assolutamente essere a priori per aspirare all’universalità, “ciò che serve alla volontà come fondamento oggettivo della sua autodeterminazione è il fine; se è dato dalla sola ragione, deve valere in egual modo per tutti gli esseri razionali”.[96]

Anche in questo caso, la “tensione” individuale/universale è viva. Kant distingue i “fini soggettivi” - relativi alla facoltà del desiderare - dai “fini oggettivi” - relativi alla facoltà autonoma del volere, decretando il primato dei secondi sui primi. Inoltre, “l’uomo, e in generale ogni essere razionale, esiste”- universalmente - “in quanto fine in se stesso, non semplicemente come mezzo da usarsi a piacimento per questa o quella volontà, ma deve essere sempre considerato(…) come fine”.[97]

È la ragione che conferisce ad ogni uomo lo status di persona, proprio per la sua capacità di essere “fine in se stesso”, al contrario di quanto accade con le cose. Se la “legge morale” determina a priori la volontà, la coscienza di questa determinazione è un fatto - la cosiddetta “voce della coscienza”- presente in ogni essere razionale[98], anche se ciò, evidentemente, non comporta che l’imperativo categorico venga ipso facto seguito da tutti. Per quanto ottimista, Kant non nega che oltre a udire la ragione - e soprattutto darvi applicazione - occorre aderirvi convinti e ciò non è esente da difficoltà. Vi sono condizioni dalle quali non si può prescindere. In primo luogo, la volontà che segue la “legge morale” deve credere d’essere libera, ossia non in preda alle inclinazioni. In secondo luogo, se il bene è per la virtù della buona volontà, tuttavia questa non costituisce il sommo bene, che è unità di felicità e virtù. Il sommo bene è ciò che è voluto da una volontà determinata esclusivamente dalla “legge morale”. Quanto voluto dalla volontà - si badi bene - non è per essere felice, bensì per essere razionale. Solo essendo razionale la volontà è virtuosa e merita la felicità, ossia un mondo diverso da quello sensibile in cui viviamo,[99] ove finalmente ogni cosa avvenga conformemente a tale volontà.[100] In terzo luogo, per l’attuazione del sommo bene, va presupposta una potenza supremamente razionale - Dio -[101] che accordi la felicità con la moralità[102]. Non è, quindi, sufficiente far riferimento alla ragione per rendere una morale universale e necessaria. Non possiamo prescindere dagli aspetti testè citati (libertà, immortalità dell’anima, esistenza di Dio), che costituiscono i “postulati della ragion pratica”.[103] L’obbligo che la “legge morale” esercita su ogni uomo è inflessibile, ma affinchè possa parlarsi a pieno titolo di “buona volontà”, ciascuno deve affermare: voglio essere libero, voglio che la mia esistenza non cessi dopo la morte, voglio che ci sia un Dio.[104]Anche chi non aderisce a queste tre volontà, non può in alcun modo evitare di sentirle intimamente vive.[105] L’elemento universale che - al pari della ragione- consente all’uomo di avvertire l’imperativo categorico della “legge morale” è la coscienza - (simile al daimon socratico, da cui Nietzsche prenderà le mosse per ricondurre Kant al platonismo).[106] In conclusione, perciò, ridiscutendo il significato delle supreme verità metafisiche, possiamo sostenere che - secondo Kant - la morale non può costituire un sapere fondato esclusivamente sulla “metafisica”, destinato quindi a seguirne le vicissitudini, ma è, semmai, la radice di quella fede.[107]

 

2. Il primato del kathèkon sull’edonè

 

Nel prologo del De officiis, Cicerone si chiede come possa dirsi filosofo l’uomo che non sia impegnato a meditare su cosa sia il dovere.[108]È lunga secoli la diatriba fra coloro che impostano una “filosofia morale” sul dovere, e coloro che invece ne collocano il fulcro nella ricerca del piacere (o assenza del dolore).[109]La concezione morale di Kant si colloca a pieno titolo nel primo filone. Il dovere, infatti, permea da cima a fondo la morale kantiana ed è presentato esaurientemente in ogni sua forma, attraverso rigide classificazioni (basti pensare ai “doveri perfetti” e ai “doveri imperfetti”).[110]Il “dovere” in senso kantiano, come detto, è qualcosa di nuovo rispetto a come tradizionalmente concepito. Quello legato a rigide prescrizioni esterne (statali, religiose), cui l’uomo veniva costretto attraverso la crudeltà (si pensi alle terribili pene che gli stati destinavano ai trasgressori, al “timor Dei” su cui le istituzioni religiose fondavano la loro autorità),[111] in Kant non ha più ragion d’essere. Ad un passato morale così “oscuro”, il filosofo di Konigsberg oppone la “luce della ragione”, l’ “abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza”,[112] sia in ambito teoretico che in ambito pratico. In questo caso, la ragione è nemica dei sensi e delle inclinazioni alla maniera degli stoici e degli epicurei. Al pari dei quali, Kant conferisce alla morale tutti i crismi dell’universalità.[113]La morale kantiana si distingue dall’etica, dal momento che consta di principi indiscutibili e - in quanto razionali - validi per tutti. Anche essa presenta - al pari delle morali tradizionali di impostazione sacra - degli obblighi categorici, ma ora questi sono dettati esclusivamente dalla ragione, che - al riparo da costrizioni esterne (eteronomia)- determina la volontà. Una volontà autonoma, che risponde alle sole leggi della ragione. Pertanto – sostiene Kant- è necessario che la morale poggi esclusivamente sul concetto di “dovere in sé”, causa e fine ultimo d’ogni condotta giusta. “Dovere in sé”, in quanto non strumentale al perseguimento di un qualsivoglia scopo determinabile a posteriori. Una morale concepita in questo modo, non può prescindere dal constatare una netta prevalenza del kathèkon (meglio katorthòma) sull’edonè.[114]Quest’ultima è solo una conseguenza. La ragione nel suo utilizzo pratico,[115]dunque, è libera sempre e soltanto nell’ accettazione dei propri comandi, non già delle inclinazioni. È per questo che il nostro utilizza termini quali, buono illimitato o ragione illimitata,[116] a ribadire che la felicità vera può determinarsi soltanto a priori, giammai a posteriori. Non potrebbe essere altrimenti per un illuminista come Kant, visto che la libertà - grazie all’autonomia - è la ratio essendi della “legge morale” e che, nel tentativo di assecondare le proprie inclinazioni, l’uomo cercherebbe soltanto d’individuare gli strumenti più adatti a raggiungere piaceri caduchi.[117]

Sulla scia di Kant, il Gesù di Hegel afferma che “l’uomo in quanto uomo non è solo un essere del tutto sensibile” e “la sua natura non è semplicemente limitata alle inclinazioni verso il piacere; c’è in lui anche uno spirito, una scintilla dell’essere divino, gli è stata concessa la parte di eredità di tutti gli esseri razionali.”[118]

Katorthòma ed edonè, dunque, non vanno intesi semplicemente come concetti posti su due piani differenti, ma tenendo conto - a differenza degli epicurei -[119] che laddove si persegua l’uno non possa assolutamente porsi l’altro.[120]

 

3. Imperativo ipotetico e imperativo categorico

 

Dopo aver descritto su quali basi Kant concepisce una morale universale e necessaria, è ora opportuno addentrarsi negli aspetti che ne costituiscono il fulcro. Abbiamo detto che il “dovere in sé” costituisce l’oggetto della morale kantiana. È stato altresì spiegato come sia la ragione pura a dover determinare la volontà, non le inclinazioni.[121] Ovvero, come la deduzione della condotta debba avvenire a priori, non a posteriori. Queste due antitetiche determinazioni della volontà designano ciò che Kant chiama, rispettivamente, imperativo categorico e imperativo ipotetico. In generale, egli definisce imperativo quel principio oggettivo costrittivo per una volontà. Tutti gli imperativi comandano “categoricamente” o “ipoteticamente”.[122]Partiamo dal secondo caso. Come l’imperativo categorico, anche quello ipotetico è udibile da ogni “essere razionale”. L’imperativo ipotetico, presuppone uno scopo, e designa una certa azione come “buona” per il perseguimento dello stesso. “Buona” come strumento, dunque. Perciò, l’oggetto dell’imperativo ipotetico risiede nel contenuto, in virtù del suo legame con un determinato - ipotetico - scopo.[123]Una condotta improntata all’imperativo ipotetico è tale anche quando non sono le inclinazioni stricto sensu a determinare la volontà, come ad esempio. “risparmiare per trascorrere una vecchiaia agiata”.[124] Infatti, una volontà determinata dai desideri, spingerebbe il soggetto alla dissipazione mentre, in questo caso, siamo in presenza di una condotta virtuosa, ma questa non è compiutamente morale.[125] Anche l’atto del risparmiare, infatti, è strumentale, “buono” a conseguire una vecchiaia agiata, non “buono in sé”. Per questa ragione Kant chiama tutti gli imperativi ipotetici, “imperativi di abilità”, per i quali non è in questione se il fine sia buono o razionale, ma quel che occorre fare per raggiungerlo. In quest’ottica, i precetti del medico per guarire il proprio paziente e quelli dell’avvelenatore per uccidere la propria vittima si equivalgono.[126] In generale, è evidente come un imperativo così legato al dato empirico e così incerto (ipotetico, appunto) nel contenuto, non possa mai poggiare su fondamenta universali e necessarie. Tra questi, tuttavia, esiste un “imperativo d’abilità” sui generis, meno ipotetico degli altri. Questo ha ad oggetto il conseguimento della felicità, un fine attribuibile senza tema di smentita a tutti gli esseri razionali. Kant chiama tale imperativo, assertorio.[127]

Diametralmente opposto all’imperativo ipotetico è l’imperativo categorico o della moralità. Questo è completamente svincolato da qualsivoglia scopo, ed è determinabile a priori. Si può dire, pertanto, che l’imperativo categorico sussiste sulla base della forma, non del contenuto. Dice a tal proposito Kant: “(L’imperativo categorico)non ha alcun collegamento con la materia dell’azione, bensì con la forma e il principio da cui l’azione stessa consegue”.[128]

Non solo la forma è a priori, ma è la ragion pura stessa, che per la “volontà autonoma” è la legislazione universale. Tutto, nell’imperativo categorico, è legato all’intenzione - non ad un determinato, mutevole scopo - quale che sia l’esito di una determinata azione. La volontà è “buona” solo quando sceglie di dipendere dalla ragione pura, accogliendo così la “legge morale”, che non ammette eccezioni. L’imperativo categorico, infatti, non prescrive un dovere “strumentale” (dovere per), bensì “finale” (dovere per il dovere). In particolare, l’uomo - soggetto per antonomasia - non deve mai essere considerato, né trattato alla stregua di un oggetto, utile al raggiungimento di determinati fini determinabili a posteriori. Afferma Kant: “Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo”.[129]

È, dunque, “immorale” servirsi di se stessi e degli altri come “mezzi”. Kant intende l’imperativo categorico una proposizione “sintetico-pratica”[130] a priori, ed ammette che comprendere la possibilità di tale proposizione comporta grande difficoltà sia nella conoscenza teoretica, che in quella pratica. Quando è la “ragione illimitata”[131] a determinare una volontà autonoma, in teoria non vi sono problemi: l’uomo conforma la propria condotta all’imperativo categorico. Ma mentre nel caso dell’“imperativo d’abilità” è evidente che l’azione atta a congiungere il soggetto ad un determinato oggetto (che ne costituisce lo scopo) sia consequenziale e automatica, qualche problema sorge per l’imperativo categorico, segnatamente a come esso possa obbligare la volontà[132]. Si tratta di una difficoltà cui Kant pone rimedio attraverso i cosiddetti “postulati della ragion pratica”, di cui sopra.[133]Dobbiamo inoltre precisare che soltanto l’imperativo categorico ha lo status di “legge pratica della moralità”, mentre l’imperativo ipotetico può ritenersi piuttosto un principio della volontà. Non potrebbe essere altrimenti, visto che il comando incondizionato - a differenza di quello strumentale -[134]non permette alla volontà alcuna preferenza per il suo contrario[135], comportando quella necessità che noi esigiamo dalla legge.

 

4. La felicità non può fondare la moralità

 

Oltre alla distinzione tra imperativo ipotetico e imperativo categorico, già nella Fondazione della metafisica dei costumi,[136] Kant traccia quattro classi di doveri (perfetti, imperfetti, suddivisi ulteriormente in verso sé e verso gli altri)[137] per i quali la domanda che egli pone è sempre la stessa: potrei voler edificare un mondo che avesse come legge questa massima? Si tratta di doveri non strumentali al raggiungimento di un fine di natura empirica, bensì razionali e validi in sé. L’impostazione “formalistica” è il punto debole e, allo stesso tempo, il punto di forza del sistema kantiano. Da un lato, infatti, essa attira su di sé molte critiche, per l’astrattezza esasperata dei suoi concetti; dall’altro, consente di estendere a tutti gli esseri razionali il medesimo “discorso”, è garanzia di universalità.

Infatti, mentre nell’imperativo ipotetico la proposizione chiave è “se vuoi…allora”, in quanto il contenuto è dato dalla relazione mezzo-fine necessaria a raggiungere lo scopo voluto, l’imperativo categorico - in quanto incondizionato- non contiene altro che la necessità dell’obbedienza alla “legge morale”: il dovere. L’imperativo categorico, dunque, prescrive il “cosa fare” sempre e soltanto in virtù del “come volere”.[138] Ora, un principio che si fondi esclusivamente sulla capacità soggettiva di sentire un piacere o un dispiacere, può servire come massima, non certo come legge pratica[139], in quanto la condizione può essere conosciuta soltanto empiricamente e perciò non può essere valida per tutti gli esseri razionali.[140] La questione che, strettamente connessa al formalismo, attira maggiormente le critiche dei detrattori della morale kantiana, è quella della felicità.

Dice Kant:“Il principio della felicità può fornire massime, ma mai da servire come leggi della volontà, anche se si facesse oggetto la felicità universale”.[141]

Kant va oltre quanto sostenuto sul “problema del piacere”, in merito a cosa debba determinare la volontà. Egli ammette che “esser felici sia necessariamente il desiderio di ogni essere razionale finito”[142], in quanto la contentezza non è un possesso originario, ma un problema imposto all’uomo proprio dalla sua natura finita. È pertanto la finitezza il difetto determinante relativo alla ricerca da parte dell’uomo della felicità, allorché - per definitionem - qualcosa di finito, occasionale, mal si combina con alcunché di universale. I motivi determinanti della volontà, infatti - eccetto l’unica legge razionale pura pratica - sono nella loro totalità empirici e come tali appartengono al “principio della felicità”. Pertanto, essi vanno separati dal “principio morale supremo” senza mai essere incorporati come condizione, poiché ciò annullerebbe ogni valore morale.[143]Insomma, alla base della felicità sta un “sentimento soggettivo di piacere”, che può essere conosciuto solo empiricamente dal soggetto, ed è perciò impossibile considerarla come base per una legge, poichè questa, in quanto oggettiva, dovrebbe contenere - in tutti i casi e per tutti gli esseri razionali - lo stesso motivo determinante della volontà. Spiega Kant:

“Sotto un certo aspetto può persino essere un dovere aver cura della propria felicità: sia perché essa (…) contiene i mezzi per l’adempimento del proprio dovere, sia perché alla mancanza di essa (…) implica la tentazione a trasgredire il proprio dovere. Solo che promuovere la propria felicità non può mai essere immediatamente un dovere, e ancor meno un principio di tutti i doveri”.[144]

Difatti, l’oggetto in cui ciascuno ripone la propria felicità dipende dal suo sentimento particolare di piacere o dispiacere e dalla diversità dei bisogni, che seguono le variazioni di tale sentimento. Pertanto, una legge soggettivamente necessaria è un principio pratico accidentale assai diverso in soggetti differenti che, per ovvie ragioni, non può mai dar luogo ad una legge.[145]Il motivo determinante sarebbe esclusivamente soggettivo, nonché meramente empirico, e non potrebbe avere quel carattere a priori che Kant reputa fondamentale affinché esso sia universalmente valido. Con ciò, è evidente che egli non ammette leggi pratiche che possano erigersi sulla felicità poiché, come spiega Beck interpretando Kant, mentre “la libertà unisce, la felicità divide”.[146]

“Si potrebbe asserire - argomenta Kant - che non vi sono leggi pratiche, ma soltanto consigli per uso dei nostri desideri” poiché (le leggi pratiche) “devono essere conosciute a priori mediante la ragione, non l’esperienza (per quanto empiricamente universale essa possa essere)”.[147]

E poiché non può esistere un “bene” preesistente alla “buona volontà”, la felicità non può affatto essere il bene più alto. Il bene più alto - il sommo bene - scaturisce dal rispetto della “legge morale” ed è l’insieme di virtù e felicità stessa. Tuttavia, è empiricamente verificabile che coloro che praticano la virtù non per questo sono felici. Spesso, è vero il contrario. E’ possibile, infatti, che coloro che basano la propria condotta sul vizio siano felici a dispetto dei probi. Tale situazione dà vita a ciò che Kant chiama antinomia.[148] A questo punto, intervengono due postulati della ragion pratica, a sgomberare dalla ragione ogni imbarazzo: l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima.[149]

5. Il ruolo della religione nella morale

 

A che titolo Dio e, più in generale, la religione rientrano nel discorso kantiano sulla morale? Abbiamo detto quanto per Kant sia determinante il concetto di “autonomia”, ora è doveroso specificare in quali termini sia possibile affiancare religione e morale. Attraversiamo, solo per un istante, il campo teoretico. Kant, attraverso il metodo critico, indaga sulla validità delle prove dell’esistenza di Dio che si sono alternate nel tempo, confutandole tutte.[150]Egli ritiene che non sia possibile addivenire ad una conoscenza oggettiva di Dio, ma che – necessariamente - la sua esistenza sia un postulato, un’esigenza della “ragion pratica”.[151]In ordine a tale considerazione, Kant sostiene che “la morale non ha bisogno dell’idea di un altro essere superiore all’ uomo, onde questi conosca il suo dovere”.

È, dunque, la morale, che conduce alla religione, la quale possiede il solo fine di rafforzarla. Kant, tuttavia, è ben lungi dall’intrecciare “ambito morale” e “ambito religioso”, optando per l’autonomia del primo dal secondo.[152]È altresì dall’analisi morale, che Kant avvia alcune considerazioni in merito al “male radicale” nella natura umana. Per “male radicale”,[153] si presuppone una duplice natura dell’uomo, per metà buono, per metà cattivo. La componente buona fa riferimento alla ragione, che detta l’universale “legge morale”, quella cattiva alle inclinazioni, cui ognuno è quotidianamente soggetto. Quando Kant parla di predisposizione naturale al male, non presuppone una forza esterna alla volontà, che conduca l’uomo in una direzione piuttosto che un’altra, ma si riferisce all’uomo nell’uso soggettivo della propria libertà.[154]Spiega Kant:

“Non è essenziale, e quindi non necessario, che ciascuno sappia ciò che Dio fa o ha fatto per la sua salvezza; ma è certo necessario che ciascuno sappia ciò che egli stesso deve fare per rendersi degno di questo sussidio”.[155]

La religione è intesa, in quest’ottica, non come fine a se stessa, bensì come “rinforzo”. Kant si dissocia dalle Scritture nel momento stesso in cui sostiene che è impossibile sapere come il male sia sorto fra gli uomini.[156]

Sic stantibus rebus, “occorre che l’uomo sia stato o sia, in prima persona, l’artefice di quello che è o deve diventare in senso morale, cioè buono o cattivo”.[157]

Questa asserzione si basa sul concetto di uomo come essere libero che, in quanto tale, soggiace autonomamente[158] a leggi incondizionate, per il rispetto delle quali non ha bisogno che un “essere superiore” gliele imponga.[159]È altresì fuorviante -nonché incompatibile con la nostra ragione - pensare ad un aiuto sovrannaturale come la “grazia”. La speranza riposta nella “grazia” è pericolosa, per il fatto che essa può spingere l’uomo a sottrarsi alle proprie responsabilità, risvegliando in lui una sorta d’indolenza. Quando Kant parla di religione, dunque, fa riferimento esclusivamente alla religione naturale, che si traduce in una fede religiosa pura, ossia una semplice fede nella ragione, da parte di quella che il nostro chiama comunità etica.[160] Si tratta di una “chiesa invisibile” retta da Dio, Signore morale del mondo. Il suo popolo è il popolo di Dio, che fa dei comandamenti divini i propri doveri morali. Si pone ora il problema della “chiesa visibile” - incarnazione della “chiesa invisibile”- ovvero la “chiesa istituzione”, organizzata in dogmi, precetti, regole. Kant vede in essa un “veicolo”, resosi necessario storicamente a causa della fragilità dell’uomo, incapace di camminare con le proprie gambe. Ovvio, però, che una chiesa incarnata in una religione positiva è “vera” chiesa, solo se contiene un principio che si avvicini alla “fede razionale pura”.[161] Nonostante questa precisazione, Kant non giunge a negare pregiudizialmente la “pretesa di Verità” alla Rivelazione cristiana. Anzi, per Kant, i “comandamenti cristiani” sono razionalmente ineccepibili e, a fronte di ciò, egli elabora una
- impressionante- interpretazione dei racconti biblici.[162] Attraverso quest’opera di congiunzione tra ambito filosofico e teologico, la religione cristiana diventa religione naturale, sebbene rivelata o - come egli stesso afferma - una religione cui
“gli uomini avrebbero potuto e dovuto giungere da sé”.[163]

Analizzando più specificatamente il ruolo della religione nella morale kantiana, occorre dire che - per sua natura - essa va oltre i postulati della ragion pura pratica. Non riguarda, infatti, soltanto l’esistenza di Dio o dell’anima immortale, ma - nel caso del Cristianesimo - anche del “peccato originale” e di Gesù. Partendo dal principio della libertà come fondamento di ogni agire morale, Kant legge in senso metaforico anche il “peccato originale”. Esso descrive una “radicale inclinazione al male”[164] presente in ogni uomo. Tuttavia, il punto non è se il genere umano sia biologicamente portato alla malvagità o meno, ma che esso si renda protagonista liberamente di azioni malvagie, in quanto trasgredisce le “leggi morali”, pur avendo la consapevolezza di queste. Quanto a Cristo
- proseguendo nell’opera di “laicizzazione” o trasposizione dall’ “ambito religioso” stricto sensu all’ “ambito morale” - Kant sostiene che la sua figura
incarni l’intera “
umanità[165] in tutta la sua perfezione morale”[166], esempio sublime di pura moralità, attraverso la quale il principio cattivo non viene sradicato, ma almeno infranto nel suo potere.[167]

 

6. Il tributo a Rousseau

 

Se è vero che Rousseau è convinto che l’autorità della legge debba prevalere sulle inclinazioni individuali è altresì doveroso precisare che alla base del pensiero rousseauiano sta il sentimento,[168] e da questo Kant prende nettamente le distanze.[169] Stando a Rousseau, la ragione sarebbe addirittura colpevole di aver ha reso l’uomo malvagio, privandolo dell’innocenza che lo contraddistingueva nello “stato di natura”.[170] Sia pur tenendo conto di tali, non indifferenti discrasie, ci preme sottolineare quelli che sono i più evidenti punti di contatto tra il pensiero di Rousseau e quello di Kant. Tra tutti coloro che - almeno potenzialmente - potrebbero aver ispirato la morale kantiana infatti, uno è proprio Rousseau, che accostiamo all’inventore del criticismo, soprattutto per l’“inno” alla legge e il richiamo alla sua validità incondizionata e universale, che risuona in tutti i suoi scritti politici. Ebbene, a fronte dei molti fraintendimenti che hanno accompagnato il pensiero di Rousseau, Kant è probabilmente l’unico ad aver interpretato fedelmente le istanze del filosofo ginevrino, diventandone, per certi versi, “scolaro” ammaliato, oltrechè dall’acume, dalla gradevolezza dello stile.[171]

La convinzione dello Sturm und Drang, che tuona “la legge non ha mai formato grand’uomini, la libertà cova colossi!”, non corrisponde all’atteggiamento morale di Rousseau.[172]Egli, infatti, è fermamente convinto che la legge non sia affatto nemica della libertà, ma che sia l’unica garante di essa.

Nel Discours sur l’economie politique compilato per l’Enciclopedie,[173] Rousseau sostiene -“more kantiano”- che “è la legge soltanto che assicura all’ uomo giustizia e libertà; è quest’organo della volontà di tutti, che ristabilisce nell’ordine del diritto l’eguaglianza naturale fra gli uomini”.

Anche in Rousseau, dunque, la legge[174]è il fondamento di ogni buona condotta, la madre di tutte le libertà. Non solo, ma è lo stesso Rousseau a suggerire a Kant “un’interpretazione più profonda del noumeno della libertà”.[175] Tuttavia - ritiene Cassirer - è un errore credere che il “fascino” provato da Kant per Rousseau si sia automaticamente convertito emulazione filosofica.[176]

E’ anche grazie a questo, comunque, che Kant ha optato per trasformare la metafisica in qualcosa di molto più vicino agli uomini. Come pure, Kant non cercherà più l’autentico valore morale nelle capacità puramente intellettuali dell’umanità.[177] Inoltre, nella sua concezione politica di fondo, Kant sta sul terreno delle idee che avevano trovato la loro espressione teorica in Rousseau e la loro “efficacia pratica manifesta” nella rivoluzione francese, tramite la quale egli intravede la realizzazione del puro diritto di ragione.[178] Rousseau  ritiene che ogni organismo politico sia interiormente malato, non appena pretenda un altro genere di obbedienza. Per accennare a quanto summenzionato in merito alla dicotomia autonomia/eteronomia della volontà, il filosofo ginevrino Rousseau intravede la distruzione della libertà laddove si prefiguri la sottomissione ad un singolo o a un gruppo dominante.[179]Si pensi per un istante a quel sublime trattato di pedagogia che è l’Emilio. Qui, Rousseau intende liberare la via dell’allievo dalle difficoltà fisiche e, in tal modo, favorirne l’indipendenza della volontà. Infatti - motivo, questo, tipicamente kantiano - l’unica cosa dalla quale egli deve essere protetto è la costrizione violenta a una volontà estranea alla propria.[180] Anche il pensiero di Rousseau, perciò, poggia sul concetto di libera volontà (basti ricordare il discorso in merito alla volontà generale su cui fonda gli stati).[181]

Inoltre, nemmeno Rousseau vede nello stato una combinazione puramente empirica di tendenze e istinti determinati, quanto piuttosto la forma nella quale sussiste la volontà - come “volontà etica”- attraverso la quale si compie il superamento del mero arbitrio. Anche in lui, dunque, la legge, nel suo significato più puro e rigoroso, non è affatto un legame che stringe dall’esterno le volontà,[182] ma ne è il loro principio costitutivo. Né felicità,piacere costituiscono le finalità, bensì la giustizia. Questo “liberarsi dal giogo” dell’eteronomia, presupposto su cui Kant imposta la propria filosofia morale è confortato da gran parte del pensiero di Rousseau. Quest’ultimo, infatti, denuncia lo stato di schiavitù in cui versano gli uomini e li invita a ribellarsi. Lo stato di prigionia non è per lui un destino inesorabile, cui l’uomo è chiamato a soggiacere di qui all’eternità, bensì uno stato dal quale ci si può - ci si deve - affrancare, trasformando la semplice “costrizione” in “volere” e, attraverso questo, in “dovere”. Al pari di Kant, egli è infatti convinto che il problema di ciò che l’uomo è, non può essere in alcun modo disgiunto da quello che l’uomo deve essere - e fare per esserlo.

 

 

 

 


 

 

 

 

 

Capitolo II°: Nietzsche Vs Kant

 

Sommario:

1. Il tributo a Schopenhauer                                                                           

2. Agli antipodi                                                                                               

3. Contro Socrate (=Kant)                                                                             

4. Dioniso e Apollo                                                                                       

5. Il superuomo nietzscheano e l’essere razionale kantiano                     

6. “Volontà di potenza” in relazione al “dovere”                                         

 7. Nietzsche e l’Illuminismo                                                                        

 

 

 

 

 


 

1. Il tributo a Schopenhauer

 

Dopo aver fatto il punto sulla filosofia kantiana in ambito morale, non possiamo esimerci dall’accennare ad Arthur Schopenhauer, prima di “ascoltare” le ragioni di Nietzsche. In tutto il pensiero nietzscheano, per l’appunto, sono udibili gli echi della filosofia schopenhaueriana. Nietzsche - intravedendo in essa una spiegazione a tutto il “male di vivere”- ne è letteralmente sedotto, come testimonia la descrizione estatica con la quale egli stesso racconta il suo primo “approccio” ad

Il mondo come volontà e rappresentazione.[183]

L’associazione Nietzsche-Schopenhauer, pertanto, non deriva esclusivamente da quella che - per una intera fase[184] della filosofia nietzscheana - è stata un’indubbia assonanza tra i due pensieri, ma anche da esplicite “attestazioni di stima” che il filosofo di Rocken gli ha tributato. Nietzsche gli dedicò la terza considerazione inattuale non tanto per esaltare il filosofo, quanto l’uomo-Schopenhauer.[185]In una lettera a Wagner, altra grande figura che segnò profondamente il primo Nietzsche, egli scrive:

“I momenti migliori e più elevati della mia vita sono legati al Suo nome, e conosco soltanto un altro uomo, che è poi il Suo grande fratello nello spirito Arthur Schopenauer al quale penso con la stessa venerazione, anzi religione quadam”.

E più esplicitamente ancora: “A Lei e a Schopenhauer io devo se finora mi sono attenuto alla severità germanica della vita, ad una approfondita considerazione di questo modo di esistere così enigmatico e rischioso”. [186]

In quest’ultimo stralcio della lettera datata 1869 si percepisce tutta la reverenza che si deve all’“educatore”, al “saggio maestro di vita”. Tale è Schopenhauer per Nietzsche: egli è l’unico uomo in grado di fornire al nostro risposte accettabili.

È in base a questa convinzione che per Nietzsche “l’uomo di Schopenhauer assume su di sé il dolore volontario della veridicità, e questo dolore gli serve ad uccidere la sua volontà personale e preparare quel completo rovesciamento e quella completa conversione del suo essere, nel cui raggiungimento sta il vero senso della vita”.[187]

A chi - più di Nietzsche - è familiare il dolore? La verità fondamentale di Schopenhauer, accolta da Nietzsche “a braccia aperte”, recita: la vita è sofferenza. Una sofferenza che reca un dolore ancor più lancinante, poiché non vi è alcuna ragione che possa spiegarla: è un fatto, e come tale va accettato. Non vi sono colpe che ne allevino il peso fra gli uomini, né è la giusta conseguenza di peccati da scontare: l’assenza di cause o fini da rintracciare e ricondurre ad essa è una grave realtà. Tutto procede dalla volontà irrazionale,[188]contro cui la ragione di Kant è impotente. Partendo dalla sofferenza come dato ineliminabile della condizione umana, dunque, la ragione perde ogni senso, passa in secondo piano. Può, infatti, esservi giustizia, se l’irrazionale regna sovrano su ogni evento? In che modo ci si può opporre alle avversità che l’umanità è chiamata a superare? Diventando duri[189] afferma Nietzsche. Opponendoci con l’ascesi e la rinuncia a tale “volontà irrazionale” - sostiene invece Schopenhauer. In una parola negando (noluntas), “dicendo no” alla vita. Il punto di partenza pertanto è il medesimo, quello d’arrivo opposto. Nietzsche, infatti, risponde alla sofferenza irrazionale con l’amor fati[190] e la volontà di potenza, Schopenhauer con la compassione e la rinuncia,[191] concetti, questi, attorno ai quali graviterà la filosofia nietzscheana, scagliandovisi contro a più riprese[192]. Un celebre passo testimoni, quanto il debito e l’ammirazione nei confronti dell’“educatore”, non intacchino affatto l’autonomia intellettuale di Nietzsche, il cui pensiero volge da un’altra parte:

“In <<Schopenhauer come educatore>> è iscritta la mia storia più intima, il mio divenire. Innanzitutto il mio voto solenne! Oh quanto ero lontano allora da ciò che sono oggi, dal luogo in cui oggi mi trovo - a una altezza che mi fa parlare non più con parole, ma con fulmini!(…) ma un vento di libertà spazza via tutto; la ferita stessa non è un’ obiezione”.[193]

Fin dai tempi della filologia - anche se ne La nascita della Tragedia già si intravede l’embrione di quella che sarà la sua filosofia - Nietzsche “assorbe” qualcosa di Schopenhauer (basti pensare al principium individuationis[194]).

Si aggiungeranno, poi, il motivo - ossessivo al pari della morte e del dolore - della solitudine come incomparabile condizione di libertà e rinnovamento,[195] e - grazie a una mirabile opera di sintesi e rielaborazione in senso originale- sorgeranno il concetto di volontà di potenza (wille zur macht) e l’anelito del superuomo (ubermensch) in cui, de facto, il debito nei confronti di Schopenhauer è grande, come in una rivelazione emblematica egli stesso ammette:

“Avevo avvistato terra.(…) Questo scritto “Schopenhauer come educatore” offre un insegnamento inestimabile sulla mia maniera di concepire il filosofo”.[196]

E’, tuttavia, un altro lo spunto che Nietzsche trae da Schopenhauer - o meglio dall’opposizione a Schopenhauer - dando vita alla filosofia dell’amor fati, dell’accettazione dell’eterno ritorno come forma suprema d’amore per la vita e del proprio destino il pessimismo.[197] Un pessimismo che egli si sforzerà a lungo di liberare “dalla ristrettezza e dalla ingenuità, metà cristiana metà tedesca, con cui esso si è recentemente presentato a questo secolo, vale a dire nella forma della filosofia schopenhaueriana”.

Solo dopo aver scisso il fortissimo legame pessimismo-negazione, egli darà vita all’“ideale dell’uomo più tracotante, più pieno di vita, più affermatore del mondo, che non soltanto ha imparato ha rassegnarsi e a sopportare ciò che è stato e che è, ma vuole riavere per tutta l’eternità, tutto questo così come esso è stato ed è”.[198]

 

2. Agli antipodi

 

Così come il nostro interesse è rivolto al Kant che emerge dalla svolta del 1770, il Nietzsche su cui focalizzeremo ora la nostra attenzione è quello a partire dal 1879, anno-cesura, a partire dal quale si affranca dal “pessimismo schopenhaueriano” e dall’”estetismo (ottimista)” di matrice wagneriana.[199]

Ora, quel che più affascina nell’accostare le “filosofie morali” di Kant e Nietzsche è il carattere assolutamente dicotomico che le contraddistingue, e la coscienza di trovarsi dinanzi a due pensieri radicali agli antipodi. Laddove Kant afferma, Nietzsche nega. Viceversa, laddove Kant nega, Nietzsche afferma. La filosofia morale kantiana è rivolta all’Uomo, quella nietzscheana all’individuo. E così, mentre Kant è impegnato a fondare una morale su basi universali, Nietzsche “filosofa col martello”, per abbattere i pregiudizi e le certezze che costituiscono quelle stesse fondamenta.[200]Inoltre, se per Kant la morale è “l’applicazione pratica della ragione” - egli stesso parla di morale come “ragion pura pratica“ - per Nietzsche sono le passioni a determinare la condotta umana.[201] È giusto che le inclinazioni guidino le azioni degli uomini? Nietzsche non si espone in un senso o nell’altro e ritiene - in ossequio alla prima infatuazione positivista - che giusto ed ingiusto siano “solo” categorie morali. Questo “non esporsi” è indicativo, in quanto l’intento di Nietzsche non è - a differenza di Kant - “mettere al fuoco” il mondo come dovrebbe essere, bensì come è, andando oltre ogni utopia morale.[202]La differenza d’approccio - come si nota - è capitale, poiché è proprio da queste categorie morali,[203]invece, che Kant procede. Basandoci per un istante sulla famosa distinzione apollineo-dionisiaco, cui Nietzsche “aggancia” il suo ”sì alla vita”[204], non si eccede nel definire Kant un “integralista apollineo”. In ambito morale, infatti, egli ritiene debba essere sempre e soltanto la ragione a determinare la volontà , mai l’inclinazione, identificando altresì la ragione con il bene, le inclinazioni con il male.[205] Per contro, Nietzsche, richiamandosi alla realtà, ritiene impossibile che l’uomo si affranchi dalle inclinazioni, sostenendo che in ogni individuo la condotta è guidata da un istinto divenuto dominante sugli altri. Per conto suo, di più non si può aggiungere sulla causalità delle azioni morali o immorali.[206] Quindi, prima di tutto la realtà, e le sue passioni. Lo stesso Kant, del resto, ammette che egli si sia dedicato alla filosofia per “inclinazione”, non certo per “senso del dovere”.[207]Alla luce della svolta degli “anni ‘80”, Nietzsche ha individuato quella che sarà la propria missione proprio grazie a una passione, che egli definisce passio nova: la “volontà di conoscenza”, che - a cominciare da Aurora-pensieri sui pregiudizi morali - caratterizzerà fino alla fine la filosofia nietzscheana. La ”volontà di conoscenza” - “volontà di verità”- spinge Nietzsche a edificare a modo suo, applicando, mattone dopo mattone il motto dello spirito libero, che recita: “le convinzioni sono nemiche della verità, peggiori delle menzogne”.[208]Il fondamento razionale in grado di “universalizzare” il concetto di giusto e il richiamo alla “voce della coscienza” vengono sdegnosamente rigettati da Nietzsche. Egli ritiene che, come tutte le cose che vivono a lungo, la morale sia “impregnata” di ragione a tal punto, che la sua provenienza effettiva dall’irrazionale sembra inverosimile. Nietzsche denuncia che sinora i filosofi hanno mirato solo apparentemente alla verità. In realtà, essi - come Kant - hanno voluto fornire un fondamento alle “maestose costruzioni etiche”[209] e per questo, “a cominciare da Platone, tutti i filosofici architetti, in Europa, hanno costruito sulla sabbia”.[210] Kant, dunque, non è riuscito a “spianare e a cementare il terreno per quelle maestose costruzioni etiche”,[211] che costituivano il “chiodo fisso” del suo tempo. Nietzsche, invece, uscito dalla tirannia delle certezze, non ha la minima intenzione di costruirne di nuove e attacca i pregiudizi, smascherandone la fuorviante razionalità. Egli dà vita a un attacco concentrico alla ragione, volto a spogliare la morale di ogni abito razionale, dandola in pasto alla storia e alla psicologia, armi affilate.

E con quel suo solito misto d’ironia e sdegno, schernisce Kant:

“Di fronte alla fondamentale immoralità della natura e della storia, Kant era un pessimista; credeva nella morale, non perché essa è dimostrata dalla natura e dalla storia, ma nonostante il fatto che dalla natura e dalla storia sia costantemente contraddetta”.[212]

Relativamente all’“omnis potestas a ratione” kantiano - oltrepassamento dell’uomo fenomenico tutto preso da piacere ed egoismo - Nietzsche

afferma:“Per far spazio al suo <<regno morale>> (Kant) si vide costretto a disporre un mondo indimostrabile, un “al di là logico” – proprio per questo gli era necessaria la critica della ragion pura”.[213] Ovvero: “ciò che è “(Nietzsche) contro “ciò che dovrebbe essere” e/o l’illusione che lo sia o lo sia stato (Kant).

Tuttavia, Nietzsche non nega in toto la moralità, operando a tratti con lo spirito di chi in fondo vorrebbe renderle un servizio. Egli nega che il progresso sia costituito dal predominio degli istinti altruistici su quelli egoistici, dei giudizi universali su quelli individuali. I primi - gli istinti altruistici e i giudizi universali - ci hanno restituito la rinuncia a in favore dell’altro, il sacrificio dell’individuo per il bene della totalità. Per questa ragione, il filosofo di Rocken sostiene che l’uomo comune ed eguale sia preferito dai deboli, perché essi temono il forte e anelano invece dello sviluppo verso l’individuo, l’indebolimento generale. Le “verità assolute”, pertanto, sono considerate da Nietzsche per nulla auspicabili,[214] poiché costituiscono “forme di livellamento” che uccidono le “forme caratteristiche”. Questo spregio verso tutto ciò che è comune, universalizzante, condiviso, è un tratto tipicamente nietzscheano. In lui, infatti, svanisce presto il sogno di una comunità di spiriti liberi -“convento laico” di confratelli antimetafisici, capaci di ricercare la nuda, terribile verità -[215] e si dischiude la porta della solitudine, attraverso la quale intravede l’unica strada per salvaguardare l’individuo, che i filosofi alla Kant vorrebbero soppressa.[216]

Su Kant è netto: ”Egli espressamente insegna che dobbiamo restare insensibili ai dolori altrui, se le nostre azioni devono avere un valore morale – cosa questa, che Schopenauer, assai stizzito, com’ è comprensibile, chiama l’insulsaggine di Kant”.[217]

Riposizionando al centro l’individuo, depurato dai pregiudizi che la ragione ha contribuito a solidificare nel tempo, Nietzsche getta l’irrazionale tra le fondamenta logiche su cui Kant aveva fondato la morale,[218] restituendo all’uomo parte della vita che gli eredi di Platone gli hanno sottratto.[219]Al dettame kantiano che recita “agisci soltanto secondo quella massima, per mezzo della quale puoi insieme volere che essa divenga una legge universale”, Nietzsche replica:

“Vivi in modo da poter desiderare di vivere questa stessa vita in ripetizione eterna”.[220]E’ un cambio drastico di prospettive, all’orizzonte del quale irrompe il singolo e la sua vita, in luogo dell’altro - fine in sé - e del dovere.

Ovvio, che l’opera di demolizione nietzscheana del plato-kantismo non sia fine a sé stessa, ma preluda a qualcosa - ben lungi dalla sistematizzazione della propria filosofia morale -[221] simile ad un auspicio, che Nietzsche lascerà più compiutamente esprimere a Zarathustra: la dottrina del superuomo, che intrecciato con l’amor fati, si salda col pensiero più grave, l’eterno ritorno dell’uguale.[222]

 

3. Contro Socrate (=Kant)

 

In ambito morale, Nietzsche rappresenta - a tutti i livelli - il rovescio speculare di Kant. Il concetto di decadence è un aspetto centrale della filosofia nietzscheana, utile in questa sede a comprendere meglio la relazione Nietzsche-Kant. Secondo il filosofo di Rocken, la decadenza della filosofia ha inizio con Socrate e si concreta nei secoli nella decadenza della morale (cristianesimo, “metafisica del boia”)[223] e della politica (socialismo e democrazia).[224] La preoccupazione maggiore di Nietzsche è rimettere l’uomo con i “piedi in terra”, ma affinché ciò avvenga egli deve smetterla di camminare “con la testa”. Sostiene Nietzsche, in opposizione ai cosiddetti “eredi” di Socrate:

“Rovesciare idoli (parola che uso per dire “ideali”) – questo sì è affar mio. La realtà è stata destituita del suo valore, del suo senso, della sua veracità, nella misura in cui si è dovuto fingere un mondo ideale… il “mondo vero” e il “mondo apparente” –in altre parole: il mondo finto e la realtà”.[225]

A partire da Socrate, dunque, la filosofia ha intrapreso la “strada decadence[226] della negazione, erigendo un “mondo ideale” che ha soppiantato quello “reale”. Così, per dirla alla Nietzsche, Apollo ha esiliato Dioniso, l’“al di là” sostituito l’“al di qua”. Al pari di Socrate, Kant è colpevole di aver imprigionato l’uomo nei concetti, avendo con ciò favorito la affermazione di un’ottica di rifiuto della “sfera dionisiaca” della vita. In Come il mondo vero finì per diventare una favola[227], egli traccia un bilancio della filosofia europea nell’ottica del “punto d’arrivo” nietzscheano - contrassegnato dal nichilismo e dalla morte di Dio -[228] ove descrive che il “vero mondo” appare innanzitutto come idea. Ecco allora Platone, cui segue il cristianesimo di Agostino, ovvero l’assunzione del platonismo nella cultura cristiana dell’ “al di là” e dell’ “al di qua”. Tale processo termina con la “razionalizzazione moderna”, per la quale il ” mondo vero “ è qualcosa di indimostrabile, stando al di fuori della realtà. Questo - per citare lo stesso Nietzsche - è “l’idea divenuta sublime nella nordica città di Konigsberg”. In questo modo aulico e colorito, Nietzsche evoca Kant, criticandone l’anelito di un mondo della libertà e di un ordine divino. Poi, richiamandosi al positivismo, individua gli ultimi stadi:

“Il mondo vero, irraggiungibile, o comunque non raggiunto, quindi sconosciuto; perciò nemmeno consolante, salvifico non dà conforto, né salvezza, e non vincola”[229].

Nietzsche sostiene che il “mondo vero” sia in realtà un nulla e che, dalla liberazione da tale mondo dell’ “al di là”, risulta che esiste soltanto il mondo quale appare. È giunto il momento tanto atteso, dunque: “Incipit Zarathustra!”.[230] Non si tratta di un messaggio di salvezza, bensì di una consapevolezza da sopportare con dignità umana. L’uomo, infatti, deve assumersi il peso del proprio destino e non fuggire da esso.[231]Al sistema razionale kantiano[232] - che accusa persino di malafede (“Diffido di tutti i sistematici e li evito. La volontà di sistema è una mancanza di onestà”)[233] - Nietzsche oppone il concetto di “fede di Dioniso”[234] (“io, l’ultimo discepolo del filosofo Dioniso –io, il maestro dell’eterno ritorno”), la fede che non nega più. A Kant, il più autorevole portavoce del “pensiero decadente”, Nietzsche oppone il seguente paradigma:

Vita in ascesa >felicità (sentimento della potenza) >virtù (libera da moralina, come la virtù del Rinascimento).

Secondo Nietzsche, insomma, la virtù è conseguenza della felicità, non viceversa.[235]A Kant, che crea un edificio valido per tutti gli uomini e in ogni situazione, Nietzsche oppone l’unilateralità delle volontà di potenza ed il conflitto come unici elementi necessari.[236]Vale a dire: Eraclito[237] contro Socrate. Prospettivismo contro universalismo. Anche - e soprattutto - tramite queste categorie si gioca il confronto Nietzsche-Kant in ambito morale. In base alla logica del prospettivismo, i “giudizi di valore sulla vita, in favore o a sfavore, in ultima analisi non possono mai essere veri (ma sono necessari alle prospettive delle volontà di potenza)”.[238] In spregio alla “condotta morale pura”, che non deve essere inficiata da elementi empirici - e per ciò stesso particolari - come scopi e inclinazioni, Nietzsche scrive:

“Formula della mia felicità: un sì, un no, una linea retta, una meta…”.[239]

Affossando in tal modo ogni ambiziosa pretesa kantiana dunque, Nietzsche fa suo il credo dei sofisti,[240] che negano a Socrate la validità oggettiva d’ogni suo ragionamento. Il sistema kantiano, perciò, poggerebbe “sulla sabbia” perché, ad esempio, la condanna della vita da parte di un vivente non è nient’ altro che il sintomo di una determinata specie di vita. Sostiene Nietzsche:

“Quando parliamo di valori, parliamo (…) sotto l’ottica della vita: la stessa vita ci costringe a stabilire dei valori, la vita stessa valuta per nostro tramite, quando noi stabiliamo valori” (e quando Nietzsche trasvaluta tutti i valori).[241]

Polemos, Apollo, Dioniso, decadence - anche la decadence - e “volontà di potenza”sono necessari, funzionali all’ottica della vita. Non è pertanto la ragione in se per sé che Nietzsche contesta, bensì la “redutio ad unum”, che filosofia e morale hanno praticato tramite essa. In questo modo, Socrate, Platone e Kant, hanno servito la menzogna, non la verità. Per cui “tutti i mezzi con cui l’umanità sino ad oggi ha dovuto esser resa morale, sono stati fondamentalmente “immorali”.[242] È in virtù di tali premesse “fallaci”, che Nietzsche scorge nella morale e nel Dio di quella religione - il cristianesimo - cui essa si “appoggia”, un carattere corruttore, avvelenatore e calunniatore della vita, convenendo con Schopenhauer alla “conclusione-provocazione” che “ogni grande dolore, sia del corpo che dello spirito, attesta quel che noi meritiamo, giacchè non ci potrebbe colpire se non lo meritassimo”.[243]

La stessa libertà, che la filosofia ha sinora promossa, - a suo dire - non è che un grossolano simulacro. La libera volontà - cardine della ragion pratica kantiana - è interpretata da Nietzsche come un odioso stratagemma, predisposto esclusivamente per consentire giudizi e punizioni[244]. La distruzione della morale -oltre quello di assecondare al meglio la “volontà di verità”- ha, in ultima analisi, lo scopo di liberare l’uomo dal concetto di colpa, pena e cattiva coscienza, depurandolo dai mali cagionati dall’“ordine etico del mondo”.

 

 

 

 

4. Dioniso e Apollo

 

Cosa si intende per spirito dionisiaco e spirito apollineo? La tesi nietzscheana  è la seguente. La tragedia è il genere sommo, poiché in essa coesistono le due grandi forze che animano il carattere greco: lo spirito apollineo e quello dionisiaco. Tramite essi, si manifesta il contrasto primigenio degli opposti - caos/ordine, ascesa/decadenza - che costituiscono il fondamento ontologico della vita. Apollo simboleggia l’inclinazione plastica e la tensione alla forma perfetta, mirabilmente espresse dalla scultura greca. Dioniso, invece, è il dio dell’ebbrezza, del caotico, dello smisurato e simboleggia l’energia istintuale, l’eccesso e il furore come impulso di liberazione e abbandono: la sua forma espressiva privilegiata è la musica che genera passione. Tradotti dall’arte alla vita, l’apollineo costituisce l’illusione, il sogno in grado di rendere accettabile la vita, immaginandola in forme stabili ed armoniche; il dionisiaco, invece rivela all’uomo la vita in tutta la sua crudeltà di dolore, sofferenza e morte. È soltanto con Dioniso che l’uomo smette di sognare, depone gl’ideali ed accetta la vita quale essa è, accordandosi con la sua natura di forza e vitalità.[245]

Al contrario di Kant, dunque, (il quale ritiene che “comandare la moralità - col nome di dovere - è affatto ragionevole, poiché al precetto di essa nessuno obbedisce volentieri se esso è in contrasto con le inclinazioni”)[246]Nietzsche crede che la vita non debba affatto prescindere dalla sfera dionisiaca.[247]

L’ ”omnis potestas a ratione” kantiano invece, innesca lo scontro tra apollineo e dionisiaco, sancendone l’incompatibilità in ambito morale.[248]

Nietzsche definisce decadent una morale ed una weltanshauung dominate dalla sola ragione, poiché essa nega una componente imprescindibile - la più importante, se si è profondi e ci si colloca al di là di ogni pregiudizio[249]- della vita.[250]Nietzsche sostiene che il privilegio della forma sulla sostanza, dell’a priori sull’a posteriori, della pura ragione sui sensi, costituiscano il più grosso inganno della storia della filosofia, diretta espressione dell’“istinto teologico”, che ha minato ogni “approccio fruttuoso” alla conoscenza.

Per Nietzsche, qualsiasi tentativo di spiegare razionalmente la vita è come se arrestasse la vita stessa. “Gli ideali[251]-egli dice- sono come aquiloni: stanno in alto finchè il fanciullo che ne tiene il filo corre; quando egli si riposa si adagiano miseramente a terra”.[252]La conoscenza scientifica - come pure l’utilizzo esclusivo di parametri razionali - non può essere confusa con la vita, come spiega Nietzsche in una bella metafora: “L’albero della conoscenza. Verosimiglianza, ma non verità; apparenza di libertà, ma non libertà, - sono questi i due frutti per cui l’albero della conoscenza non può esser scambiato con l’albero della vita”.[253]

Perciò, in opposizione a Kant, egli ritiene che il mezzo attraverso cui la razionalità ha prodotto la decadenza dell’occidente sia stato la morale.[254]

Già La Nascita della Tragedia trasse origine dall’avversione alla morale, vista come “volontà di distruzione della vita (…), principio di decadenza”, contro cui l’istinto di Nietzsche “si è rivoltato inventando una dottrina sistematicamente opposta e una contraria valutazione della vita”.[255]

Nietzsche esalta la potenza dell’irrazionale contro le catene con cui la ragione costringe l’uomo a negare la vita “reale”, in cambio di una vita “ideale”, basata su valori sovvertiti. Egli - in polemica con tutti coloro che hanno imposto alla vita le categorie della ragione come le uniche valide - esorta a “diventare quello che si è”.[256]Le tre metamorfosi dello spirito[257] è una metafora che contribuisce a chiarire le obiezioni di Nietzsche nei confronti di Kant in ambito morale. Zarathustra - come Gesù - si esprime per parabole, e spiega come lo spirito si faccia cammello, quindi leone ed infine fanciullo. Dapprincipio, lo spirito, dominato dalla morale, è come un cammello, che porta su di sé tutti i pesi del mondo, umiliato. In cerca della solitudine[258] nel deserto, lo spirito diventa leone e vuol conquistare la libertà, per la quale combatte contro il più potente dei draghi. Il drago si chiama tu devi ed è coperto di scaglie d’oro sopra ognuna delle quali sta scritto tu devi. Per abbattere il drago, il leone urla io voglio e conquista la libertà. Tuttavia, il leone non può creare nuovi valori, in quanto la fine della menzogna non costituisce di per sé una nuova verità. Infine, lo spirito diviene fanciullo - oblio, innocenza, palingenesi - creatore di nuovi valori[259] in armonia con la vita reale, in cui sia Apollo che Dioniso trovano asilo e dove gl’istinti non vengono sacrificati sull’altare della ragione, a servizio di un’idea:

“Questa tirannide, questo arbitrio, questa severa e grandiosa stoltezza hanno educato lo spirito; a quanto sembra la schiavitù, tanto per l’intelletto più grossolano quanto per quello più sottile, è il mezzo indispensabile anche della disciplina e dell’addestramento spirituale.”[260]

Molto si è detto e scritto sull’immoralismo di Nietzsche. Contrariamente alla gran parte dei suoi interpreti, Vattimo parla di moralismo nietzscheano.[261] A suo dire, il superuomo non sarebbe affatto quell’individuo immorale - o amorale - cui gran parte dei critici fa riferimento. Egli è, piuttosto, un individuo che vive bene, senza particolari nevrosi o patemi d’animo in un mondo plurale e imperfetto, non perché si sia adattato opportunisticamente ad esso, ma perché sa che è moralmente giusto fare così.[262]

 

5. Il superuomo nietzscheano e l’essere razionale kantiano

 

Nietzsche utilizza il concetto di superuomo - “estremità di una corda tesa”-[263], per superare la decadenza in cui l’uomo è sprofondato. Per il filosofo di Rocken, l’Uomo è un concetto che deve essere superato, lasciando spazio al superuomo che, dalle macerie del nichilismo,[264] sappia creare nuovi valori, che si traducano in un incondizionato alla vita. Sulla scia di Cartesio e Pascal, Kant individua nel pensiero l’elemento che conferisce all’uomo massima dignità e giustizia (Apollo versus Dioniso).[265]Quale importanza Kant conferisca al pensare è indicato dal fatto che nel dare un nome alla suprema funzione unificante del nostro conoscere, egli scelga io penso, “principio che deve poter accompagnare tutte le rappresentazioni”.[266] La morale kantiana, dunque, è concepita in modo tale che essa sia valida “erga omnes”. Poiché ogni uomo è un “essere razionale”, essa si rivolge all’ ”universitas hominum”.

“Se non si vuole davvero contestare al concetto di moralità ogni verità e riferimento ad un oggetto possibile - sostiene Kant - non si può mettere in dubbio che la sua legge abbia un significato tanto ampio da dover valere non solo per gli uomini, ma per ogni <<essere razionale in generale>> non semplicemente sotto condizioni contingenti e con eccezioni, ma in modo <<assolutamente necessario>>.[267]

Fondare una morale sull’a priori, significa unire, condividere un patrimonio comune, in grado di partorire le stesse risposte, da parte di tutti e in ogni situazione. Ciò sottintende la negazione della diversità-unicità individuale, in quanto la massima che determina l’agire di uno soltanto, non è desiderabile come legge universale. Occorre pertanto prestare fedeltà al dovere, anche quando questo comporti la rinuncia alla proprie inclinazioni.[268]

“La legge morale - spiega Kant - è per la volontà di un essere perfettissimo[269] una legge della santità, ma per la volontà di un essere finito razionale è una legge del dovere e in ossequio al dovere”.[270]

Inoltre, sempre a discapito dell’individualità - irrinunciabile per Nietzsche (Zarathustra ama parlare ai solitari) - Kant ritiene che non si debba mai avere come movente un principio soggettivo poiché, anche se l’azione può essere “conforme al dovere”, se essa non è compiuta “per il dovere”, non è “morale”.[271] Per Kant, un’azione si dice morale quando si identifica con il disinteresse.[272] D’altro canto, giudicare la bontà di un’azione sulla base delle intenzioni - anziché degli esiti prodotti - è, per Nietzsche, ulteriore sintomo di decadenza. In ottica kantiana, invece, non si può prescindere dalla buona volontà, affinché la condotta sia effettivamente morale (= buona).[273] L’individualismo è visto da Kant come qualcosa che ostacola la sovranità della morale, pari a un elemento di disturbo: non è ammessa - nel sistema kantiano - una massima (o principio soggettivo), che non sia desiderabile come legge universale. Con quest’assunto base della ragion pura pratica, Kant ricompone ogni conflitto tra individuo e legge.[274]Allo stesso modo, quando Kant pone l’attenzione sull’essere razionale, non intende un individuo determinato, bensì tutto il genere umano, poiché la ragione su cui fonda la morale è la ragione universale.[275] Ogni uomo - se vuole - può aspirare alla moralità. Ogni uomo le cui azioni siano legate a motivi, giammai a moventi.[276] Ognuno - secondo Kant - anche non volendo, può udire i comandi della ragione attraverso quella che si è chiamata voce della coscienza. L’individuo morale kantiano è per Nietzsche un uomo a metà, troncato della sua componente più importante. Proprio di quest’uomo “libero” dalle passioni,[277] Kant tesse le lodi, in una sorta di inno al dovere:

“Dovere! Nome sublime e grande che non contieni niente di piacevole che implichi lusinga, ma chiedi la sottomissione (…), che esponi soltanto una legge che da sé trova adito nell’animo e anche contro la volontà acquista venerazione; innanzi alla quale le inclinazioni ammutoliscono, benché di nascosto reagiscano ad essa”.[278]

Prima di passare al superuomo è bene fare una digressione.Al contrario di Kant, in deroga parziale alla propria visione rigidamente relativistica, Nietzsche riconduce la varietà dei comportamenti morali a due tipi fondamentali: la “morale dei signori” e la “morale degli schiavi”.[279]

Egli rigetta il pensiero che vuole “morale” soltanto l’azione “disinteressata”. La “morale dei signori” è, per antonomasia, una morale “interessata”. Essa è costitutivamente gerarchica e si fonda sulla separazione (pathos della distanza) da coloro che sono diversi o appartenenti ad uno status inferiore.[280] La “morale dei signori” prevede esercizio di solidarietà esclusivamente nei confronti dei propri simili, e si colloca agli antipodi della “morale cristiana” e del “pensiero democratico”. Quanto alla “morale degli schiavi”, essa presenta canoni rovesciati rispetto alla “morale dei signori”, poiché ne costituisce la reazione risentita. Lo schiavo, difatti, è scettico, insicuro, pessimista, incapace di sopportare i dolori del mondo. Egli si difende dicendo no alla vita, sostenendo che non c’è nulla per cui valga la pena di lottare. Dietro questo secondo tipo di morale, risiede l’utilitarismo, in quanto i valori costitutivi sono pietà, negazione, gentilezza.[281] Tali valori servono a preservare i deboli dai forti. In quest’ottica, Nietzsche intende la morale come “vendetta dei malriusciti e dei negatori della vita”.

In essa,[282] però, “la vendetta non si fa mai chiamare col suo vero nome: si fa chiamare punizione, dando così alla sua essenza ostile l’apparenza del diritto”.[283]Occorre che l’uomo sia redento dalla vendetta. “Questo - dice Nietzsche-Zarathustra - è per me il ponte verso la speranza suprema è un arcobaleno dopo lunghe tempeste”.[284]

Nietzsche priva della “patente di legittimità” la morale kantiana, in quanto essa si pone soltanto se riduce l’uomo a pura ragione. Abbiamo detto, come nel ridurre tutto ai parametri della ragione, Nietzsche scorga le trame dell’inganno e della menzogna, e per questo rifiuti l’applicazione alla vita degli strumenti logici tradizionali. Egli ritiene del tutto fuorviante - se non in malafede - l’intenzione di ridurre la felicità alla conoscenza.[285] Ispirandosi ai progressi della scienza, Nietzsche concepisce provocatoriamente una chimica delle idee, dei sentimenti morali e delle emozioni. Tale chimica non ha ovviamente nulla a che vedere con la chimica quantitativa degli scienziati. Essa vale piuttosto come metafora di scomposizione di valori e simboli culturali, dalla quale tuttavia non scaturisce nessun fondamento per valori e simboli, che abbiano alcunché di eterno. Per Nietzsche, il divenire e il ritorno delle cose sono gli unici concetti eterni possibili, gl’unici assiomi su cui erigere valori.

Precisa Vattimo: “Nietzsche non cerca regolarità formulabili in leggi.[286]Il modello della chimica funziona solo come affinamento dell’attenzione analitica, che però si rivolta contro il modo di procedere della scienza che nell’analisi cerca le costanti trascurando le differenze. La chimica nietzscheana è un’acutizzata sensibilità alla policromia del mondo spirituale.”[287]

In altri termini egli nega ogni elemento che appiani la diversità. La ragione -secondo Nietzsche - non può essere parametro affidabile d’universalità. Il “nuovo” non può sorgere senza la fine di tutte le certezze della ragione, della metafisica - che lo stesso Kant ha provveduto a “trasferire dal cielo alla terra attraverso la ragione”-[288] e della morale. Contrariamente a Kant, che non ritiene ammissibile la felicità individuale nei fatti morali, né come fondamento della morale stessa, Nietzsche esprime la necessità di una scienza che appaghi il bisogno umano di felicità (una gaia scienza):[289]la sfera della conoscenza deve camminare unita a quella della gioia.[290]

Il tramonto delle false certezze (che la ragione ha potentemente contribuito a generare) - la cosa in sé, il libero arbitrio, l’uguaglianza - che trova espressione massima nel concetto di “morte di Dio”[291], esige dunque un deciso “andar oltre” quell’“essere tutto ragione” auspicato da Kant: esige il superuomo.[292]Nel panorama nichilistico tratteggiato da Nietzsche, Zarathustra esorta:

”Morti sono tutti gli dei, ora vogliamo che viva il superuomo – questa sia, nel grande meriggio, la nostra ultima volontà”.[293] Dal canto suo, infatti, Nietzsche ritiene che l’uomo sia “un ponte, non un fine e si chiama beato per il suo mezzogiorno e per la sua sera, come via verso nuove aurore”.[294]

Ora, circondati dal “nulla” dei valori tradizionali, occorre farsi creatori di nuovi valori e modelli. Contrariamente alla morale kantiana, che cerca - e trova - (nella razionalità)[295] il fondamento unitario del molteplice universalizzando il concetto di buono, Nietzsche pone in primo piano la diversità, nell’ottica che vuole “tutto ciò che è in comune di scarso valore”, in quanto la vita è segnata da un imprescindibile relativismo, tramite il quale ciascun uomo è in competizione[296] per l’affermazione della propria volontà di potenza[297]. Unità versus frammentazione, dunque. Nietzsche osteggia l’unità “per riduzione” determinata dalla razionalità. È necessario che gli uomini non pendano più da labbra altrui, non consacrino più le loro vite ai precetti dogmatici di un “credo” o alle parole di un profeta,[298] ma ritrovino se stessi attraverso la solitudine.[299] A tal proposito, Zarathustra, parlando a quei pochi degni di udirlo, dice:

“Vado solo, adesso, miei discepoli! Anche voi andatevene e soli. Così io voglio. In verità vi consiglio: andatevene e difendetevi contro Zarathustra!(…)Forse egli v’ingannò!(…)Non vi eravate ancora cercati: e trovaste me. Così fanno tutti i fedeli; per questo la fede è così poca cosa”.[300]

È più che mai chiaro quanto il sospirato avvento del superuomo si accompagni ad una caratterizzazione, che rovescia tutti gli auspici kantiani in termini di universalismo e morale. Per Nietzsche, “se hai una virtù, non l’ hai in comune con nessuno(…); una virtù terrena - prosegue Zarathustra- sia quella che amo: in essa è poco intelligenza e meno che mai la ragione di tutti”[301]. Per il filosofo di Rocken, la morale kantiana è il sintomo della decadenza dell’umanità, la rinuncia al senso profondo - ed effettivo - della vita. Al “cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, Nietzsche oppone la virtù terrena, individuale, ove non c’è spazio per la ragione universale.[302] Il superuomo parla ai sensibili, ovvero a coloro che sanno andar oltre i pregiudizi e le “comode”verità: “La verità è donna, non è fatta per i superficiali” [303] dice Nietzsche. Le parole di Zarathustra sono per pochi “profondi”, per coloro che nelle diverse vicissitudini della vita reale non vedono alcun peccato. L’idea di superuomo si salda con i concetti di amor fati ed eterno ritorno. Per Nietzsche, nell’eterno ritorno, non c’è spazio alcuno per la teleologia: l’universo non ha fini né morali, né estetici. Il divenire ciclico è innocente, “al di là del bene e del male”:[304] la teodicea si sublima nella cosmodicea. Il periodo in cui partorisce Zarathustra (inverno 1882-1883) è colmo di grandi sofferenze psicofisiche per Nietzsche: le crisi si fanno per lui insopportabili e, nel dicembre dell’’82, egli scrive:

“Io non voglio la vita di nuovo. Come ho potuto sopportarla? Producendo. Cosa fa che io ne sopporti la vista? La visione del superuomo, che dice di sì alla vita”.[305]

Assodato che, scrivendo del superuomo, Nietzsche non pensi affatto a se stesso, quello non è altro che lo spirito libero in grado di “dire sì” alla vita come essa è, infinite volte.[306] A tal fine, l’Uomo come è stato inteso finora, dopo la morte di Dio, può finalmente tramontare. Solo un essere oltreumano, infatti, può sopportare la vita che eternamente ritorna.[307] Strettamente legato al superuomo è il concetto di “ultimo uomo”(“l’uomo più spregevole, che rimpicciolisce tutto”), l’obiezione più grave contro l’ eterno ritorno. Anche l’uomo più basso infatti è destinato a tornare, a non essere mai definitivamente superato.

Il superuomo è tale in quanto accetta anche questo dolore: la certezza che tutto ciò che fu, è, e sarà è destinato a ripetersi eternamente.[308]Egli, dicendo alla vita, accetta che ogni salto in avanti dell’uomo venga frustrato dall’eterno ritorno. Egli vuole l’eterno ritorno, scelto come possibilità più propria dell’uomo. L’unica che, in quanto tale, gli consente di non vivere il tempo in modo angoscioso.[309]Non, tuttavia, come un “imperativo morale” di tipo kantiano: l’uomo che vuole l’eterno ritorno, infatti, è seguace di Dioniso, cui la vita dona attimi immensi, senza bisogno alcuno di riferimenti normativi trascendenti.

Alla luce di tutto ciò, Nietzsche invoca il ribaltamento dei “valori decadenti”, per recuperare - senza compromessi - una concezione della vita esclusivamente terrena, a discapito d’ogni “visione metafisica”, non ultima quella “riformata” da Kant.

 

6. La“volontà di potenza” in relazione al “dovere”

 

Nel celebre episodio delle “tre metamorfosi, per abbattere il drago, figura mostruosa, incarnazione simbolica del dovere kantiano, il leone oppone l’io voglio al tu devi. È in queste due ultime proposizioni, che si gioca l’essenza del dibattito Nietzsche-Kant. Nietzsche intravede nell’imperativo categorico un “principio di limitazione” della vita che vuole - eternamente e senza limiti - affermarsi. L’eterno ritorno spiega la “ripetitività cosmica”, il continuo divenire, su cui però incombe il pensiero più grave: ogni progresso, ogni salto in avanti verrà “frustrato” dal tempo.[310] Questo eterno movimento è figlio di una forza - già delineata da Schopenhauer - cui anche Nietzsche assegna il nome di volontà. La differenza tra la concezione schopenhaueriana e quella nietzscheana di volontà verte essenzialmente su di un fatto: per il primo, la vita si configura come oggetto della volontà, mentre, per il secondo, come soggetto. Per Nietzsche, infatti, è la vita stessa che vuole dominare, affermarsi e superarsi attraverso la volontà di potenza, come rivela a Zarathustra:

Io sono quella cosa che deve sempre superare se stessa”.[311]

L’origine del concetto di volontà di potenza risente degli echi della classicità greca. Uno di questi, è il tema della competizione[312] come principio di organizzazione della vita. A tal proposito, il filosofo di Rocken contesta il quadro ufficiale dell’umanesimo greco fornito dalla tradizione accademica: la sua vera natura, infatti, non consterebbe dell’ottimismo razionalistico di Socrate o dell’omologhia platonica,[313]bensì della crudeltà, del dominio, del gusto - quasi sadico - per la distruzione, della gioia per la vittoria. I greci insegnano che non esiste vita senza istinto di affermazione e potenza.[314]

In un’ampia critica che attraversa tutti i livelli del sapere tradizionale, Nietzsche schernisce i cosiddetti saggi, che si fanno alfieri della “volontà di verità, dietro cui celano una subdola “volontà di dominio”. Tuttavia, l’aspra critica alla “volontà di verità” - riferita alla religione dogmatica e alla razionalità scientifica - non deve lasciare interdetti: “volontà di verità” e “volontà di dominio”, sono entrambe manifestazioni della volontà di potenza della vita. Rivela ancora la vita a Zarathustra:

“Tu che vuoi conoscere sei soltanto un sentiero e un’ombra della mia volontà: la mia volontà di potenza cammina coi piedi della tua volontà di verità!(…) Soltanto dove è vita,[315] là è pure volontà, non di vita, ma volontà di potenza”.[316]

La volontà di potenza, dunque, non è altro che il linguaggio irrazionale della vita. Tenuto conto di questo, Nietzsche si sbilancia, prendendo a prestito le vecchie categorie che tanto aborrisce. Egli sostiene, infatti, che il sommo bene sia la volontà di potenza e che “non c’è altro criterio della verità che l’aumento del sentimento di potenza.”[317]Tutto è volontà di potenza, compresi il socratismo e la decadenza, sebbene neghino la vita.[318] Secondo Nietzsche, non esiste altra causalità che quella dettata dalla volontà: “La volontà più forte guida quella più debole. Non esiste altra causalità se non quella tra volontà e volontà.”[319]

In un frammento illuminante, è possibile notare che Nietzsche, nell’affrontare la relazione tra eterno ritorno e volontà di potenza, ne enuncia la identità, inaugurando l’unione d’entrambi i “filosofemi”: “Questo mio mondo dionisiaco di eterna autocreazione, di eterna autodistruzione (…) - volete voi un nome per questo mondo? Una soluzione per tutti i suoi enigmi?- (…) Questo mondo è la volontà di potenza – e niente oltre a ciò! E voi medesimi siete questa volontà di potenza – e niente oltre a ciò![320]

È assai evidente come, attraverso l’aggiornamento della lezione schopenhaueriana sulla volontà[321] e l’inserimento della teoria dell’eterno ritorno dell’identico, Nietzsche compia il tentativo ambizioso di una nuova interpretazione di tutto l’accadere, partendo da un’altra prospettiva: l’irrazionale. Egli, infatti, in tutto ciò che accade non vede altro che l’irrazionalità attraverso cui la vita tenta di affermare se stessa. Il potere è il contenuto effettuale della volontà, in quanto il Volere (Willen) può realizzarsi soltanto nel potere. Esiste una discrasia insanabile tra potere e “idea di libertà”.[322] Non è infatti possibile potere, attraverso i contenuti della libertà, che comportano l’isolamento e l’impotenza nei confronti del mondo (ascesi, distacco).

Ora, la volontà di potenza - a differenza del “Dovere (Sollen) ascetico”- riconduce tutto alla temporalità come condizione necessaria e imprescindibile. La volontà di potenza infatti, è sempre e soltanto in quanto hic et nunc. Essa è tempo, vita, che si ripete eternamente. Nel tempo, non c’è spazio per la “sintesi”, ma solo per il “conflitto”, la “crisi”.[323] In tal senso, sostituire la “realtà conflittuale” con la “sintesi” equivale a negare il tempo.[324] I conflitti sono funzionali al Macht, (Potenza) la cui ragion d’essere non è l’unità o la concordia cui Kant aspira in ambito morale, bensì l’inimicizia, il punto di vista. È ben visibile, attraverso questi assunti, la guerra di Nietzsche alle “idee sintetiche”, che per definizione negano il concetto di Macht. Così, secondo Nietzsche, non può esserci alcun “ponte” tra volontà e morale,[325] come in una delle sue frequenti punzecchiature a Kant, spiega:

“Anche prescindendo dal valore di affermazioni come <<esiste in noi un imperativo categorico>> si può sempre domandare: che cosa asserisce siffatta affermazione riguardo a colui che la fa?(…) molti altri, tra cui proprio lo stesso Kant danno a intendere, con la loro morale: <<Quel che v’è in me di rispettabile è il fatto che io so obbedire e per voi non deve essere diverso da come è per me!>>. Insomma le morali non sono altro che un linguaggio mimico delle passioni.”[326]

L’esigenza di superare l’Uomo[327] - oltre alle motivazioni addotte precedentemente - è da Nietzsche spiegata in questi termini. L’Uomo è il prodotto estremo della metafisica, il rifugio ultimo di chi voglia consolarsi per la morte di Dio.[328]Ma la morte di Dio stessa svela al Willen che la sua unica direzione è quella del Dasein (“esserci” hic et nunc)[329]. Nel tempo del Dasein esiste soltanto conflitto-contraddizione. In tale situazione, il Willen non può che voler potere.[330] Tuttavia, con la sua dottrina di “questo mondo”, la cui legge suprema è la necessità,[331]Nietzsche si illudeva di aver detto “sì” alla casualità della propria esistenza e aver trovato una risposta alle domande: “sapete cos’è per me il mondo? E cosa io voglio, se voglio questo mondo?”.La volontà nietzscheana di “questo mondo” è condizionata dal disprezzo nei confronti del “platonismo cristiano” da un lato, e dalla nostalgia per il vecchio mondo classico dall’altro.[332] In questo senso, l’Uomo è sì “un concetto che deve essere superato”, ma attraverso ciò che Nietzsche chiama “ricordar procedendo. Alla folla radunata in massa al mercato per assistere allo spettacolo del funambolo - metafora di arduo passaggio sull’abisso del nulla - [333]Zarathustra dice:

“L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo? Che cos’è la scimmia per l’uomo? Un ghigno o una dolorosa vergogna. E questo appunto deve essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna”.[334]

L’Uomo è espressione della “sintesi” e ciò nega l’essenza della volontà di potenza che è “conflitto”,[335]crisi eterna. Tale[336] è in Kant dopo il superamento dell’antinomicità, per mezzo della ragion pura, come pure in Schopenhauer con il concetto di simpatia. [337] Perciò, finchè sopravviverà l’Uomo, non ci si potrà mai affrancare dalla tradizione metafisica, dalla direzione meramente ideale del Sollen. Finchè si porrà l’Uomo, non sarà mai possibile alcuna affermazione del Macht,[338] che - come detto - presuppone conflitto e divenire eterni. Nella fattispecie, intendere l’ubermensch come oltreuomo non è abbastanza esaustivo. In quest’ottica, infatti, il superuomo è esattamente il contrario dell’Uomo.

Il superuomo non è colui che scopre l’ascesi del Sollen, ma è “ colui che torna dall’ascesi per potere nel mondo e sa di essere elemento del divenire, necessitato in esso, non libero”.[339] L’uomo, perciò può realizzare la propria volontà solo se si libera dell’“idea di Uomo”, abbandonando definitivamente la metafisica su cui poggia il Sollen, per potere finalmente sul divenire dei fenomeni del mondo e sugli altri.

 


 

Ultimo aggiornamento ( Venerdì 12 Settembre 2008 09:09 )